Giacomo A. Dente, Il Messaggero 29/10/2012, 29 ottobre 2012
LA DEMOCRAZIA È IN TAVOLA
La gente, intesa come gente che va a mangiare fuori al ristorante, è un segmento poco indagato nella storia della sociologia. Eppure è proprio in questa funzione profondamente sociale e, in quanto tale, matrice di valori, comportamenti e, di fatto, disvalori e disuguaglianze che si fonda uno dei paradigmi dai quali nasce la nostra modernità. Non per caso, l’idea di costruire luoghi dedicati al buon mangiare si forma in quel complesso momento rivoluzionario dal quale nascono le società borghesi che si colloca sul finire del XVIII secolo. La rivoluzione francese disintegra il nesso tra palazzo e buona cucina, aristocrazia ed eccellenza del cibo e vede nascere invece una serie di luoghi aperti al pubblico, i ristoranti, dove si può vivere un’esperienza sotto ogni profilo estetica legata alla nutrizione. Il sistema di sentimenti dell’ancien régime lascia il posto a un sistema fondato sui piaceri e, in questo spazio, nasce la categoria dell’uomo consumatore.
A indagare, tra una rilettura gastrosociologica di Jean- Paul Sartre e il valore socio-culturale di un Burger King, è Robert Appelbaum, professore di Studi Rinascimentali all’Università di Lancaster, autore di De Gustibus - Alla ricerca dell’esperienza gastronomica (Odoya, 320 pagine, 18 euro), un volume appassionato e provocatorio sul senso profondo della cultura del ristorante come luogo di interazione sociale e di produzione di valori. Che il ristorante sia un luogo sociale, così come il fatto che l’atto di mangiare/cucinare abbia un segno profondamente sociale è un concetto ormai fortemente acquisito, come ricorda Carlin Petrini, padre nobile di Slow Food, autore della prefazione al libro. Il che rende più ampio l’orizzonte tra il ristorante, il luogo cioè dove si concentrano una serie di rappresentazioni sociali e culturali, e l’ambiente, nel senso più ampio del termine, dal quale il cuoco trae la propria materia prima. L’edonismo-cucina irresponsabile si contrappone oggi a un nuovo edonismo fondato sulla democratizzazione dell’atto di mangiare. Ma fermarsi a questa dimensione sarebbe un appiattimento della visione di Appelbaum che si pone domande filosofiche che vanno dal cosa renda davvero buono il buono o, prendendo spunto da Sartre, su quanto di artificioso ci sia nella rappresentazione della cucina alta, al concetto quasi metafisico del surplus di godimento del filosofo ceco Slavoj Zizek per giustificare l’elemento soggettivo (culturale, sociale, psicologico) che rende un pranzo fuori casa un evento del tutto particolare.
Il ristorante viene letto nella sua vera natura di istituzione la quale, in quanto tale, fa parte integrante della vita della moda. Bravura, prestigio, clientela vanno così a dilatarsi in categorie come in e out, e lo spazio ristorante si allarga a categorie che esorbitano dalla qualità del cibo: per esempio a chi ne parla. Un settore, anche questo, che partecipa della post-modernità liquida, e che concorre al surplus di godimento. Si afferma in questo spazio la critica gastronomica, gli scrittori di cibo, categoria affluente (e che nasce, a ben vedere, con Grimod de la Reynière dalla Francia post-rivoluzionaria, oltre che dalle ceneri della civiltà della conversazione), ma anche a una critica alternativa, vero e proprio processo di democratizzazione dal basso del racconto dei luoghi dove si mangia, il mondo cioè dei foodies che usano la rete e i blog per raccontare un loro comune senso del sapore.
Il fenomeno è di grande interesse, perché mette in scena un modello alternativo alla staticità «micheliniana» del modello impeccabile di cucina iperstellata. Non a caso l’autore esplora il significato culturale di trattorie, o locali etnici per vedere fino a che punto sia possibile rompere il nesso tra gastronomia ed elitarismo. In questo senso il film di culto sul quale riflettere è il cartoon disneyano Ratatouille, dove il piccolo Remy, un topolino di campagna, produce il piatto (una ratatouille, appunto) che disarticola le liturgie pompose di un classico ristorante parigino, obbligando il più severo dei critici, autentico monumento di cattiveria e arroganza, a rivedere le radici stesse della sue convinzioni sul buono nel piatto.
Oggi sono presenti nella società i due modelli: il ritorno al sapore responsabile, ma anche la wonderland del piacere astratto da qualunque remora etica o sociale sulla diseguaglianza. In qualche modo tutti parlano di cibo, perfino troppo. Montaigne, nel descrivere i saperi inutili, raccontò il suo fastidio nel conversare con un maestro di casa della nobile famiglia Carafa, fiero di poter raccontare infinite sottigliezze intorno al modo di condire un’insalata, così come oggi infastidisce la ricerca del cibo che alimenta in un circolo vizioso conversazioni che hanno il cibo al loro centro.
Appelbaum crede senza dogmatismi talebani che sia possibile costruire un rapporto più profondo di democratizzazione della ritualità legata al ristorante. Difficile rispondere alla domanda su quanto tutto il set di aspettative, convinzioni, valori, renda buono il buono al ristorante. Forse, il vero critico gastronomico è il principe di Salina, raccontato nel Gattopardo, quando nella sontuosa cena offerta nel palazzo di Donnafugata, mentre tutti gli ospiti sono distratti dalla bellezza della giovane Angelica, lui, unico, si accorge della piccola imperfezione del timballo di maccheroni portato in tavola. Il sapore per il sapore, fuori da ogni altro rumore di fondo.