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 2012  ottobre 29 Lunedì calendario

Jonathan Franzen ha in mente un piano preciso: «Penso che Obama vincerà, ma ho voluto evitare il nervosismo della vigilia

Jonathan Franzen ha in mente un piano preciso: «Penso che Obama vincerà, ma ho voluto evitare il nervosismo della vigilia. Andrò nella Repubblica Dominicana, senza Internet fino a sera». Jonathan sta seduto al tavolo da pranzo nella casa di New York, che pare il soggiorno della famiglia Lambert nelle Correzioni . Jeans, camicia blu, niente scarpe. Ogni tanto si alza per prendere acqua dal frigo, mentre parliamo della raccolta di saggi Più lontano ancora , che esce domani in Italia da Einaudi. Non andrà a votare? «Non al seggio, ma l’ho già fatto via posta». Ha scritto che la politica le alza il battito cardiaco. «Mi riferivo a Bush nel 2004. Obama non è così polarizzante, e neanche Romney. Molte cose sono andate storte, e ci sono parecchie ragioni per essere arrabbiati: ad esempio, il fatto che i repubblicani hanno impedito di rilanciare l’economia, solo per danneggiare la rielezione del Presidente. C’è avversione razzista nei suoi confronti, disprezzo. Però Obama non è una persona che divide, per temperamento, anche se il tentativo di unificare il paese è fallito perché l’altra parte non era interessata». Lei è deluso da Obama? «Con la riforma sanitaria ha realizzato una cosa tentata senza successo per quarant’anni, pochi presidenti hanno cambiato il tessuto sociale degli Stati Uniti in maniera così profonda. E poi Obama è cool , in tutti i sensi. È il gatto che cammina da solo. È uno di noi, un professore di Harvard: intelligente, legge i miei stessi libri, vede gli stessi film. Ha fatto un brutto dibattito a Denver, ma è un politico duro e non ci sta a perdere». Pensa che vincerà? «È ancora favorito, ha più del 50% di possibilità. Può succedere di tutto, con le iniziative dei repubblicani per sopprimere il voto delle minoranze, ma ho una sensazione positiva». Ha fatto campagna per lui? «Ho partecipato a raccolte di fondi, parlato con amici, e votato». Perché ci tiene che vinca? «Nominerà buoni giudici alla Corte Suprema. Mi basta questo». Todd Akin, candidato repubblicano al Senato nel suo Missouri, ha provocato polemiche dicendo che esiste lo «stupro legittimo». Perché l’America resta così divisa, anche sui fatti? «Il Missouri mi imbarazza politicamente, però persone ragionevoli possono essere in disaccordo sull’aborto. Ci sono altre cose più irrazionali a cui crediamo: ad esempio che l’assicurazione sanitaria privata sia meglio di quella pubblica. L’America, come tutti i paesi, è vittima di conflitti culturali nevrotici. I paesi hanno una personalità, che in genere contiene il meglio e il peggio di essi. In Italia non amate le regole, un comportamento affascinante e devastante. Noi abbiamo questa cultura libertaria, che ci ha dato il progresso liberal, e l’odio per Stato e tasse». O l’amore per le armi. La libertà di un popolo si misura anche dalla possibilità di andare in un cinema a sparare? «Sì. In Germania discutevo spesso con i miei amici sul fatto che pur di correre a duecento in autostrada, tolleravano la morte di persone innocenti negli incidenti. Da noi il diritto di possedere le armi è legato alla lotta contro la tirannia e quindi ha un forte impatto emotivo. Purtroppo, siamo ancora disposti a pagare questa libertà con le stragi come quella avvenuta in Colorado». Perché ha scritto che la Cina è «il posto più repubblicano»? «C’è un governo forte e repressivo sul piano giudiziario e della politica estera, ma assolutamente permissivo sul resto. Nessuna regola sul lavoro e l’ambiente, niente reti di protezione sociale, corsa libera al profitto. Un sogno, per i nostri repubblicani». Ha scritto di temere che i giornali facciano una brutta fine. «La mia immagine è questa: i giornali stanno correndo verso il baratro. Dall’altra parte c’è qualcosa che può ancora salvarli: la cavalleria è in arrivo, ma non so se farà in tempo». Perché l’informazione va verso il precipizio, e andrebbe salvata? «Il modello sbagliato dell’e-commerce, con i contenuti gratis. L’idea che non serva un filtro e una critica alle notizie. È falso: per avere un’informazione professionale bisogna pagare. Senza, la democrazia non funziona. Abbiamo toccato il fondo, e quindi spero che arrivi la cavalleria. Però c’è il rischio che la gente rinunci alla democrazia, per giocare ai videogame, nel qual caso avremo qualcosa di molto più grave di cui preoccuparci». Il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, ci ha detto che loro sono il cuore della nuova democrazia, basata sulla trasparenza. «Queste sono le cose che mi innervosiscono: la pretesa dei social media di aver rivoltato l’Egitto. Ma prima di Twitter non era mai stato rovesciato un governo? Anche la trasparenza non mi convince: la segretezza è sottovalutata. La democrazia funziona anche grazie al compromesso, che si trova quando ci si siede intorno al tavolo dentro una stanza, senza trasparenza, e si discute con franchezza. Mi ricorda gli Anni 60, quando gli hippies dicevano che i vestiti non servono. Beh, in realtà sono utili, e sono pure sexy». La tecnologia è una minaccia? «Non sono un luddista, ma non sopporto chi dice che la tecnologia crea una nuova Utopia. Questa fissazione digitale è una droga che provoca dipendenza. Un po’ come le sigarette. Fino a qualche anno fa tutti fumavano: poi una minoranza ha avvertito che questa dipendenza era stupida, una minoranza ha aggiunto che faceva male alla salute, e una terza ha avuto il coraggio di dire che era un palliativo, incapace di curare la malattia da cui derivava il suo bisogno. Lo stesso accadrà con i gadget di cui non possiamo più fare a meno, ma da cui sogniamo di fuggire. In questo senso, non è un cattivo tempo per essere un romanziere: offriamo una via di fuga semplice, basta sedersi e aprire un libro». Qual è la malattia che vorrebbe curare la tecnologia? «Oh, le malattie moderne che ci affliggono sono moltissime. Il senso di non avere potere, la pochezza della vita, la perdita di significato rispetto alla società tradizionale. Molti input ci rendono ansiosi, e reagiamo come i passeggeri sul Titanic, che mentre la nave affondava fumavano come ciminiere». Siamo sul Titanic? «Sì, in un certo senso. C’è l’antica paura di morire, a cui si è aggiunta l’insoddisfazione moderna, a cui si è aggiunta l’iper-insoddisfazione moderna introdotta dalla tecnologia. Da qui nascono i comportamenti compulsivi patologici digitali. Come i passeggeri del Titanic, che mentre affondavano fumavano». Per questo ha scritto che la narrativa è la sua religione? «È la cosa più vicina, per un dubbioso come me. In fondo la religione cos’è? La ricerca del senso della vita, attraverso una narrazione avvolta nel mistero. Questo fa un buon romanzo: ci mostra i molteplici risvolti senza fine per cui è interessante essere vivi, pur senza trovare mai la risposta definitiva». La letteratura era la via di fuga per il suo amico David Foster Wallace, e quando l’ha persa non gli è rimasto altro che la morte? «È così. Il motivo per cui scrivi e leggi è che ti fa sentire meno solo. Mentre leggo Cechov, vedo il mondo con i suoi occhi, anche se è morto. E magari penso: fa schifo, il mondo, ma non sono l’unico a pensarlo. Mentre scrivo, spero di lasciare qualcosa che dopo la mia morte parli ancora a persone che oggi non sono nemmeno nate. Finché c’è tutto questo, hai speranza. Quando diventi troppo depresso, o mentalmente malato per avervi accesso, tutto finisce». Si è arrabbiato con Bret Easton Ellis che ha criticato Wallace? «No, perché in fondo provo la stessa cosa: smettiamo questa trasformazione di David in un Kurt Cobain con l’aureola, e concentriamoci sulla sua scrittura». Ha paura di diventare un’icona anche lei? «Sono abbastanza vecchio, e non abbastanza malato mentalmente, per capire che le proiezioni della gente sui personaggi noti sono solo questo: proiezioni. Io ambisco a restare un essere umano, che magari lascerà qualcosa di interessante stampato su una pagina».