Alessandro Sallusti, il Giornale 24/10/2012, 24 ottobre 2012
INFAMIE E FALSITÀ
Il Giornale, mercoledì 24 ottobre
C’è qualcosa che fa peggio dell’ipotesi di finire in carcere. È prendere atto di quanto violenta, falsa e arrogante possa essere la giustizia se affidata a mani indegne. È successo ieri, leggendo le motivazioni della sentenza, firmata da tale Aldo Grassi e tale Antonio Bevere (consigliere estensore), con cui la Cassazione mi condanna a 14 mesi di reclusione per un articolo neppure scritto da me (1). Si legge che io avrei una «spiccata capacità a delinquere» (2), mi paragona a un delinquente abituale. È una vera infamia, che non permetto neppure a un presidente di Cassazione, basata su odio ideologico e su una serie di menzogne.
Mi prendo tutta la responsabilità di quello che dico e sollevo il mio editore dal risponderne in tribunale. Ve lo dico io, in faccia, signori Grassi e Bevere: avete abusato del vostro potere, la vostra sentenza è un’infamia per me e per i miei parenti.
Non si gioca con la vita delle persone come se fossero cose nella vostra disponibilità senza pagare dazio. Le motivazioni della vostra sentenza sono delinquenziali, non il mio lavoro. Sono parole basate su falsi, montate per costruire teoremi che esistono solo nella vostra testa. E ve lo spiego.
È falso che io abbia scritto alcunché. È falso che io abbia deliberatamente pubblicato notizie sapendole false (3). È falso che io mi sia rifiutato di pubblicare una smentita, nessuno me l’ha mai chiesta né inviata (4). È falso che sul mio giornale dell’epoca, Libero, sia stata pubblicata una campagna contro un giudice (un articolo di cronaca ripreso da La Stampa e un commento non possono in alcun modo costituire una campagna) (5). È falso che non fosse possibile identificare chi si celava dietro lo pseudonimo Dreyfus (6): bastava chiederlo, non a me che come direttore sono tenuto al segreto deontologico, ma a chiunque e avreste accertato che si trattava di Renato Farina (lui stesso lo ha scritto in un suo libro). È falso che io abbia un numero di condanne per omesso controllo (7 pecuniarie in 35 anni di mestiere) superiore alla media dei giornalisti e direttori di quotidiani italiani. Delinquente, quindi, lo dite a qualcun altro. Non vi stimo, non vi rispetto, non per la condanna, ma per quelle vostre parole indegne. Vergognatevi di quello che avete fatto. E forse non sono l’unico a pensarla così. Ci sarà un motivo se il Parlamento sta lavorando per cancellare la vostra infamia e se un vostro collega, il procuratore di Milano Bruti Liberati, si rifiuta di applicare la vostra sentenza del cavolo nonostante io mi sia consegnato alle patrie galere, in sfregio a voi, rinunciando a qualsiasi pena alternativa. E adesso fate pure quello che credete, rispetto a me e alla mia storia siete un nulla.
Alessandro Salusti
(1) La condanna. «La pena inflitta a Sallusti Alessandro, nella misura di 1 anno e 2 mesi di reclusione» (vedi anche nota 6)
(2) Delinquente. «Nel caso in esame, il Sallusti, nei motivi di appello incidentale, si era limitato a una generica denuncia di ingiustificata severità della pena. Non è quindi assolutamente censurabile la motivazione della sentenza impugnata, laddove fa riferimento non solo l’assenza degli elementi positivi, che trovano puntuale collocazione nell’art. 62 c.p o in altre disposizioni di legge […], nonché in prosieguo
- alla spiccata capacità a delinquere, dimostrata da ex art 133 co.2 n.2 c.p., dai precedenti penali dell’imputato
- alla gravità del fatto ex art.133 co.1 n.1 c.p., delineata dalle “modalità di commissione dei fatti, caratterizzate da particolare negatività, come già posto in risalto da giudice di primo grado».
(3) Pubblicazione. «Nel caso in esame, dal giudice di primo grado è stata esclusa la configurabilità del reato ex art. 57 c.p. ed è stato invece configurato il concorso del direttore Sallusti con il sedicente Dreyfus, essendo stato ritenuto che il primo ha voluto la pubblicazione, nell’esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui.»
(4) La smentita. «La sentenza ritiene logicamente che il dolo risulta ulteriormente rafforzato sia dalla mancata rettifica della notizia palesemente falsa e diffamatoria (in violazione di evidente regole deontologiche, sia dal ritorno sulla medesima vicenda, che traspare dalla pubblicazione di un altro articolo di un avvocato il successivo 23 febbraio, in cui si prospettano dubbi e perplessità sullo svolgimento corretto dei fatti, ma non si accenna assolutamente alla volontà di restituire credito al magistrato»)»
(5) La campagna. «Inquadra perfettamente la condotta diffamatoria – contenuta nella crociata contro un giudice dello stato italiano – la conclusione del tribunale di Torino […] Innanzi tutto è stato rilevato quanto segue:
[…] c) il nome della persona offesa è comparso, nello stesso giorno di pubblicazione del quotidiano la Stampa, nel comunicato Ansa delle ore 20,50 e nel telegiornale e giornale radio delle ore 19.30»
(6) Lo pseudonimo. «L’accusa mossa al Sallusti, in relazione al capo 2) della rubrica, non contiene la formulazione della diretta contestazione di avere ideato e scritto l’articolo redazionale a firma Dreyfus, “pseudonimo” (nel senso di falso nome, espressione di origine greca, da pseudos onoma), di cui non è stata possibile l’identificazione (“non identificabile”). L’ufficio del P.M. non ha ritenuto di avere a disposizione elementi idonei a identificare l’ignoto Dreyfus, il cui nome evocativo di uno storico errore giudiziario, avvenuto nella Francia del XIX secolo, non è stato di ausilio nell’individuazione del nome anagrafico dell’autore.
È noto l’uso di uno pseudonimo (termine avente vari sinonimi, come alias vices, altre volte; nom de plume, nome di penna, ), da parte di protagonisti del mondo letterario (Alberto Moravia, George Orwell, Italo Svevo, Curzio Malaparte, Umberto Saba, Jack London), del giornalismo (Fortebraccio), che non abbiano voluto o potuto firmare le proprie opere con il vero nome».
(7) Precedenti. «Al di là della dimostrata gravità dei fatti commessi dal Sallusti e dall’implicita, ma chiara e lampante, giustificazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche – già sufficiente a configurare un’ipotesi eccezionale, legittimante l’inflizione della pena detentiva – è da segnalare la particolare inconsistenza di alcune censure formulate dal ricorrente a fondamento della richiesta di un trattamento sanzionatorio meno severo.
Quanto ai precedenti penali, nel ricorso, da un lato si fa riferimento all’illibatezza della condotta e della vita antecedente dall’imputato; dall’altro si giustificano le pregresse condanne per diffamazione (7, di cui 6 in relazione all’ipotesi ex. art. 57 c.p.), presentandole come eventi inevitabilmente connessi all’attività di chi fa informazione (“accade al 100% dei giornalisti in attività”). Questa pretesa di speciale irrilevanza – ai fini della valutazione della personalità del condannato e della sua propensione a trasgredire le norme penali – delle condanne riportate dai giornalisti è del tutto inammissibile sotto il profilo del quadro normativo vigente e del razionale senso comune (non può ammettersi l’esistenza di una lecita attività lavorativa che abbia, come inevitabili prodotti naturali, fatti lesivi di diritti fondamentali dei cittadini).