Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 25/10/2012, 25 ottobre 2012
20 ANNI DI IMPRONTITUDINE
La prima volta che ho scritto di lui era il 1988. Collaboravo già al suo Giornale, che però era per tutti “il Giornale di Montanelli”, come vicecorrispondente da Torino. Ma anche con un settimanale cattolico torinese, il Nostro Tempo: il direttore Domenico Agasso mi fece recensire un libro bianco anche nella copertina, Inchiesta sul signor tv, di Giovanni Ruggeri e Mario Guarino, Editori Riuniti. Il primo libro che raccontava la storia di Vittorio Mangano, lo “stalliere” di Arcore che poi stalliere non era, e di Marcello Dell’Utri, l’uomo che sussurrava ai cavalli e soprattutto al Cavaliere. Quando poi, nell’autunno ‘93, corse voce che Silvio Berlusconi volesse entrare in politica, ne parlai con Montanelli, a pranzo. Per spiegarmi che tipo fosse, mi raccontò la storia del mausoleo di Arcore, poi aggiunse: “È tutto vero, purtroppo. S’è fissato con la politica. Dice che il pool di Milano sta per arrestarlo elesueaziendestannofallendoperdebiti.S’èfissato di fare il premier, ma se un poco lo conosco vuole diventare presidente della Repubblica. Se ci riesce, e lui è sempre riuscito dappertutto, con quali metodi preferisco non saperlo, siamo rovinati. Sia come italiani (ti dico solo questo: Confalonieri lo chiama ‘il Ceausescu buono’), sia come giornalisti del Giornale. Mi ha già detto che ci vuole tutti al servizio del suo partito e io gli ho già detto di no. Vedrai che scatenerà l’apocalisse”. Qualche sera dopo, partì il bombardamentoatappetoaretiFininvestunificate per sloggiare il Vecchio dalla direzione del Giornale. Fede, Liguori, Sgarbi (che gli diede del “fascista pedofilo”). “I manganelli catodici”, li chiamava Montanelli. All’Epifania, Fede chiese al Tg4 le sue dimissioni. Il direttore rispose con un Controcorrente di tre righe: “Fede ha chiesto le nostre dimissioni. Noi, al posto suo, non potremmo mai chiedere le sue, per il semplice motivo che non l’avremmo mai assunto”. L’8 gennaio ’94 Berlusconi irruppe, insalutato ospite, nella riunione di redazione del Giornale, che ormai da due anni non era più suo perché la legge Mammì l’aveva costretto a venderlo, anzi a fingere di venderlo (l’aveva girato al fratello Paolo). E fece capire a noi redattori, in agitazione per i continui tagli di organico, che se volevamo le munizioni avremmo dovuto combattere la sua battaglia, non quella di Montanelli: cioè indossare il kit di Forza Italia. Altrimenti saremmo rimasti alla fame. Un minuto dopo Montanelli, assente e ignaro di tutto, rassegnava le dimissioni dal Giornale che aveva fondato vent’anni prima per creare un nuovo quotidiano, finalmente libero, “con un solo padrone: il lettore”. Sulla porta del suo ufficio, si formò una lunga fila di giornalisti che lo imploravano di portarli con sé. Quaranta giorni dopo, il 22 marzo, nasceva la Voce. Sei giorni dopo, il 28 marzo, Berlusconi vinceva la elezioni e andava al governo. La Voce durò 13 mesi soltanto, ferocemente sabotata – nella pubblicità, nella distribuzione, nel collocamento in Borsa delle azioni della public company che doveva sorreggerla – dall’azienda che si era fatta partito, e Stato. Intanto il governo B. sistemava, o tentava di sistemare, le pendenze penali e fiscali del Cavaliere: dal decreto Biondi per vietare l’arresto dei tangentari, in straordinaria coincidenza con lo scandalo delle mazzette (anche Fininvest) alla Guardia di Finanza, all’occupazione militare della Rai, al primo condono fiscale (il primo di una lunga serie, camuffato da “concordato”) firmato dal tributarista del gruppo, Giulio Tremonti, subito promosso ministro delle Finanze. L’incubo finì abbastanza presto, dopo appena otto mesi, grazie a Bossi, che gli levò la fiducia, diede vita al governo Dini col centrosinistra e alle elezioni del ’96 condannò B. alla disfatta correndo da solo e regalò la vittoria all’Ulivo di Prodi. Per il Caimano pareva veramente la fine: nessuno poteva prevedere che nel 1996 D’Alema avrebbe resuscitato il caro estinto con la respirazione bocca a bocca, regalandogli altri 15 anni di storia patria: prima la visita a Mediaset “grande patrimonio del Paese”, con annessa quotazione in Borsa, e poi la Bicamerale, dove l’amico di Mangano e Dell’Utri, ormai sepolto da avvisi di garanzia e processi, fu promosso addirittura a padre costituente. O ricostituente.
FU PROPRIO negli anni del centrosinistra (1996-2001) che compresi come quella che le teste d’uovo senza testa e la presunta sinistra scambiavano per una parentesi passeggera aveva messo radici, anzi metastasi, nella società italiana. Ma anche nel sangue di molti italiani. E lo compresi sulla mia pelle quando, chiusa la Voce, vidi che quasi nessuno dei colleghi che avevano condiviso l’ultima, splendida avventura montanelliana, trovavano un posto di lavoro in nessun giornale, in nessuna tv. Eravamo marchiati d’infamia per aver dato vita a un giornale che aveva combattuto Berlusconi non per il gioco delle parti destra-sinistra (come Repubblica, l’Unità, il manifesto), ma per ragioni di principio, da posizioni autenticamente liberali. Che “le sinistre” lo combattessero, B. lo dava per scontato, anzi gli faceva gioco: altrimenti non avrebbe potuto convincere milioni di italiani che il pericolo comunista era alle porte. Ma avere contro il simbolo dell’Italia liberalconservatrice, Montanelli, che lo accusava di voler creare “un regime”, quello no, non poteva proprio accettarlo. E noi pagammo con anni di disoccupazione. I giornali, anche importanti, ci facevano scrivere, ma “non potevano” assumerci perché venivamo dalla Voce. L’Italia che contava era già diventata cosa sua.
La prima volta che ebbi con lui un incontro ravvicinato fu nel 1996-’97. Collaboravo con una miriade di giornali, a borderò, tra i quali il Messaggero, l’Indipendente, il Giorno, Cuore, il Borghese, MicroMega e infine l’Espresso dei grandi Rinaldi e Pansa. Per IlMessaggero seguii una sua conferenza stampa al Lingotto di Torino. I giornali di quel mattino riportavano le dichiarazioni di un suo vecchio consulente, Ezio Cartotto, che raccontava come fosse stato Craxi a battezzare la nascita di Forza Italia, in un vertice segretissimo ad Arcore, nell’aprile del 1993, pochi mesi prima della fuga ad Hammamet. Alzai il braccio e domandai a B. come rispondesse a quella ricostruzione, all’epoca molto imbarazzante (Craxi era ancora un nome impronunciabile, infatti lui faceva finta di non averlo mai visto né conosciuto). Rispose, paonazzo in volto nonostante il cerone: “Si vergogni della sua domanda”, e passò a un’altra. Mi aspettavo, ingenuo com’ero, che gli altri giornalisti presenti in sala, quelli che facevano parte del suo consueto codazzo, insistessero per avere una risposta, non foss’altro che per solidarietà con un collega maltrattato dal leader dell’opposizione. Invece mi guardarono tutti storto, come a dirmi: vergognati, ce l’hai fatto incazzare, ora ci rimane storto per tutta la giornata. Avevo violato, a mia insaputa, un patto non scritto: Lui non andava disturbato con domande. Solo assist. Pochi mesi dopo il direttore del Giorno cambiò: al posto di Enzo Catania (che mi faceva scrivere editoriali), arrivò un vecchio e celebrato giornalista che mi comunicò subito la fine della mia collaborazione. “Problemi di budget”, mi scrisse. Risposi: “Scriverò gratis”. Replicò: “Non si può, motivi sindacali”. Seppi poi che le aziende del gruppo B. (ma anche la Fiat) avevano minacciato di togliere la pubblicità al quotidiano se la mia firma avesse seguitato a comparirvi.
Il secondo incontro ravvicinato fu nel 1998, al processo di Torino contro Dell’Utri per le false fatture di Publitalia. Dopo mesi di melina, B. fu costretto dal suo braccio destro a venire in tribunale per testimoniare in suo favore. Lui alla fine arrivò, tentò di convincere il presidente che un po’ di evasione fiscale non ha mai fatto male a nessuno, dipinse Marcello come “Giorgio Washington che trascurava i suoi affari privati per il bene della nazione”. E fu molto persuasivo: infatti Dell’Utri fu condannato a 2 anni e mezzo di carcere. Uscito dall’aula, mi avvicinai a B. in una selva di colleghi, fotografi e cameramen. Mamma mia quanto era piccolo: più piccolo di quanto potessi immaginare, nonostante i tacchi col rialzo. Lui fece un cenno di stop a flash e telecamere, estrasse di tasca un batuffolo di cipria, se lo passò sul volto inceronato, poi tirò fuori un pettinino, diede una sistemata a quel che restava della chioma sulla crapa pelata (mancavano sei anni al trapianto pilifero). Poi diede il via alle riprese. Ebbi la sensazione di essere il solo a stupirmene.
Nel marzo 2001 assistetti praticamente in diretta all’intervista di Montanelli a Biagi, quella del “vaccino”, censurata da Rai1 nella parte in cui il Vecchio vaticinava: “Governerà senza quadrate legioni, ma con molta corruzione”. Ne parlai a lungo con lui: mi aveva invitato a pranzo dopo la mia ospitata da Daniele Luttazzi, dove avevo presentato L’odore dei soldi, il primo di una lunga serie di libri a lui dedicati, scritto con Elio Veltri. E mi ero beccato sette cause civili: due da B., due da Forza Italia, una da Fininvest, una da Mediaset (“sono cose diverse – disse Luttazzi – quando si tratta di incassare”), una da Tremonti per un totale di 120 miliardi di lire (poi tutte vinte).
“STAI ATTENTO, MARCO – mi disse il Direttore – questa volta durerà a lungo e io sono felice del fatto che non vedrò la sua fine. Combatti la tua, la nostra battaglia, ma guardati le spalle, perché l’uomo sembra simpatico, e a piccole dosi lo è, ma con chi gli tocca la roba – cioè i soldi e l’immagine – è vendicativo, e i suoi servi ancor di più. Saranno anni terribili”. Morì quattro mesi dopo, giusto il tempo di vederlo trionfare e di constatare l’irredimibilità degl’italiani. L’editto bulgaro del 2002 contro Biagi, Luttazzi e Santoro, e poi Freccero e tutti gli altri, fu una sorpresa solo per chi non aveva ancora capito chi fosse: non per noi che avevamo già vissuto tutto nel ’94. L’editto vige ancor oggi, almeno per Luttazzi. E tuttora in casa Mediaset c’è il divieto di invitarmi in qualsiasi programma, foss’anche di cucina; divieto esteso al Fatto nelle rassegne stampa.
B. lo rividi, per la terza e ultima volta nel 2004, sempre in tribunale, ma a Milano: era lì per la dichiarazione spontanea al processo Sme. Contai le balle che riuscì a raccontare: 83 in meno di due ore. Piero Ricca, in corridoio, gli gridò “buffone, fatti processare”. Lui lo fece identificare dai carabinieri. Dopo quattro anni a Repubblica, scrivevo per l’Unità: quella rifondata da Colombo e Padellaro, che faceva opposizione assieme ai Girotondi in piazza mentre il centrosinistra, tanto per cambiare, inciuciava. Infatti, anche all’Unità, arrivò il berlusconismo. Quello di sinistra però, che cacciò prima Colombo e poi Padellaro per eccesso di antiberlusconismo. Non stava bene: era sintomo di girotondismo e giustizialismo. Disturbava il “dialogo”. “L’Italia non è di destra – gridava Corrado Guzzanti travestito da Rutelli con la voce di Sordi –: l’Italia è tua, Silvio!”. Infatti, dopo la breve parentesi del Prodi-2, nel 2008 rivinse la la terza volta contro il Pd di Veltroni che manco lo nominava (“il principale esponente dello schieramento avversario”).
Intanto l’Italia precipitava in tutte le classifiche, e l’unica cosa che cresceva, oltre al suo conto in banca e ai suoi processi, erano i suoi capelli e la corruzione. Come aveva profetizzato (almeno per la corruzione) Montanelli. In fondo lui l’aveva detto, quando la Fininvest era sull’orlo della bancarotta: “Trasformerò l’Italia come le mie aziende”. È stato di parola. Missione compiuta.