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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

HO SCRITTO UN ROMANZO SUL CORPO PERCHÉ AVEVO PERSO UN BRACCIO


[Daniel Pennac]

LA VOCE calda di Daniel Pennac risuona, durante le prove, nel silenzi della sala di un noto teatro parigino, tra volte ottocentesche decorate e pareti scrostate, che rivelano molteplici strati di colore, di storia, di anima.
È tornato alla scrittura, l’autore di Diario di scuola e della saga Malaussène, dopo un lutto che l’ha paralizzato per anni, e s’improvvisa, una volta ancora, attore «per dovere di trasmissione». Esce nelle librerie, per Feltrinelli, il prossimo 24 ottobre, il suo ultimo lavoro, Storia di un corpo, il racconto di un uomo che, dall’adolescenza fino alla fine della sua esistenza, tiene la cronaca delle evoluzioni e trasformazioni del suo corpo. Mentre a Parigi lo scrittore è in scena, con lo stesso testo, al Théâtre des bouffes du nord. Ma non è tutto: Pennac è anche sceneggiatore in Il sesto continente, un testo scritto per il teatro e per la regia della svizzera Lilo Baur, nato dall’idea di realizzare «uno spettacolo sul sapone che poi è diventato una riflessione sul concetto di sporcizia e di pulizia» e che, dopo la tappa nella capitale francese, inaugurerà la stagione del Teatro Stabile di Torino, il 14 novembre.
È alla sua terza esperienza in teatro, dopo aver messo in scena Merci nel 2006 e Bartleby lo scrivano di Melville nel 2009. Com’è avvenuto il passaggio da scrittore ad attore?
In realtà è una continuazione: per più di mezzo secolo sono stato professore di scuola. Allora era la trasmissione di un sapere ai miei alunni. Oggi la mia posizione in scena è, in fondo, ancora una situazione di trasmissione, anche se non più in senso pedagogico e il pubblico non è lo stesso. Il pubblico scolastico è acquisito, non può andarsene. Invece il pubblico di un teatro, se si annoia se ne va. Se mi succedesse non mi farebbe piacere... ma è la regola del gioco.
Com’è Pennac attore?
Più che attore, divento lettore: la mia è una lettura a voce alta. Leggo alcuni passaggi del mio libro, solo sul palco, per un’ora, durante tre settimane (a partire dal 24 ottobre, ndr), e ogni settimana scelgo quattro passaggi differenti. Lo spettacolo non sarà sempre lo stesso. Amo molto la lettura a voce alta. L’ho sempre praticata con i miei alunni. Leggevo loro a voce alta per farli riconciliare con la lettura a bassa voce. L’obiettivo oggi è lo stesso con il mio pubblico.
Il teatro è diventato parte integrante del suo essere scrittore?
Non so se il teatro è parte integrante di me, del mio lavoro. Ma la lettura pubblica sì. Per esempio farei volentieri una lettura di Il libro dell’inquietudine di Pessoa o de La leggenda del grande inquisitore di Dostoevskij. Ci sono opere che avrei voglia di leggere a voce alta, semplicemente per farle conoscere agli altri, e poi per il piacere del testo perché provo un piacere incredibile nel dire i testi che non sono miei e che so essere oggettivamente molto belli, come fu il caso per Bartleby di Melville.
Quando interpretò Bartleby disse di averlo fatto per ragioni personali.
Ho perduto un fratello che amavo enormemente e questo fatto mi ha paralizzato per diversi anni. Mio fratello era come Bartleby, il protagonista del romanzo di Melville. Bartleby è uno scrivano trasparente, saggio, calmo, educato, gentile che scrive senza mai fermarsi, mattina e sera. Ogni volta che il suo datore di lavoro, un notaio newyorkese, gli chiede qualcosa, lui risponde sempre con la stessa frase, «Preferirei di no», che in inglese fa «I would prefer not to». Una sorta di ritornello che diventa il perno della relazione tra i due. Bartleby è per me un personaggio molto caro. Ho voluto fare questa lettura per mio fratello, a mio fratello. Poi mi sono rimesso a scrivere e ho scritto Storia di un corpo. Ho trascorso gli ultimi cinque anni a fare la descrizione del corpo, ma non il mio in particolare, quello degli altri. Non sono ossessionato dal mio corpo. È il diario di qualcun altro. Ma le persone che ci mancano, ci mancano sempre, ci mancano come se avessimo perduto un membro, un braccio.
Di cosa parla Storia di un corpo?
È il diario che il protagonista ha tenuto sulle evoluzioni e le trasformazioni del suo corpo, dall’età di 12 anni fino agli ultimi giorni della sua vita. Ma non è un libro autobiografico.
Perché ha voluto scrivere delle trasformazioni di un corpo che non è il suo?
Perché trovo che il fatto di avere un corpo sia molto interessante: è un oggetto di analisi, di descrizione appassionante. I rapporti che intratteniamo attraverso il corpo tra l’esterno e l’interno, il fatto che il corpo ci faccia delle sorprese continue, il modo in cui noi accogliamo o analizziamo queste sorprese. Tutto questo è appassionante. Ma non se ne parla mai: il corpo non esiste in quanto materia prima di un romanzo. Se ne parla quando lo si descrive, mentre fa l’amore, mentre fa la guerra... Con questo libro ho voluto che il corpo esistesse in quanto soggetto.
Il corpo è protagonista anche di un altro spettacolo di cui ha curato la sceneggiatura, Il sesto continente.
In Il sesto continente il corpo è considerato come un imballaggio. L’umanità avvolge tutto con la plastica e poi si rende conto che quello che resta è la confezione stessa. Il problema è che la maggior parte degli imballaggi non sono biodegradabili e producono un’enorme quantità di rifiuti.
È una critica alla società del consumismo, un messaggio ecologista?
È una constatazione: la constatazione di un paradosso. L’uomo è al contempo, ipocondriaco e suicida e si può considerare simbolicamente l’imballaggio come uno degli effetti della sua ipocondria suicidaria. Si imballano gli alimenti per proteggerli, la salute ci guadagna ma, allo stesso tempo, l’imballaggio è gettato nel mare, per terra, nei fiumi, inquina e poi ritorna nel ciclo alimentare attraverso gli animali. Nella pièce mi è interessato descrivere questa contraddizione. I problemi ambientali mi interessano, ma non in modo militante. Constato che nei comportamenti siamo, al contempo, innocenti e pericolosi.
Come nasce la collaborazione con Lilo Baur?
Lilo è, prima di tutto, la mia vicina di casa, abitiamo nello stesso palazzo. Un giorno, mi ha detto di volere fare una pièce sul sapone e ho trovato quest’idea bella e folle. Dal sapone siamo passati al concetto di pulito e sporco: che cosa sporco quando mi lavo? Poi, analizzando il binomio pulizia-sporcizia, ci siamo resi conto che ci sono rappresentazioni mentali sulla pulizia e sulla sporcizia che non hanno nulla a che vedere con lo sporco e il pulito. Per esempio il gran lusso fa pensare subito all’idea di pulito, mentre la povertà a quella di sporcizia. Abbiamo sviluppato il concetto e siamo arrivati a Il sesto continente.
Che cos’è Il sesto continente?
È la storia di una famiglia ossessionata dalla pulizia che, con il passare delle generazioni, diventa la fonte d’inquinamento più stravagante che l’umanità abbia conosciuto, il sesto continente appunto. Un territorio immenso, formato da tutti i rifiuti prodotti dall’umanità e aggregati nel cuore dell’oceano Pacifico in una sorta di pattumiera galleggiante.
Vuole trasmettere un messaggio?
Il messaggio è quello che il pubblico trae dallo spettacolo. Preferisco parlare di una volontà di rendere conto del reale.
Ci sarà un seguito della saga Malaussène?
No, questo capitolo è chiuso. Di Malaussène avevo deciso di fare quattro episodi, alla fine ne ho fatti cinque. Sono stato ben tradotto in italiano da Yasmina Melaouah: questa ragazza è geniale, è come se rinascessi in un’altra lingua.