Alberto Arbasino, l’Espresso 26/10/2012, 26 ottobre 2012
QUANDO NON C’ERA FORMIGONI
Quando si andava all’università, a Milano, nei primi anni Cinquanta, mai si sarebbe previsto che quel nostro presente potesse diventare oggetto di nostalgie, per cliché e routine, per moda o abitudine.
Così va notato subito che non esisteva una moda con griffe, né lì né altrove. I blue-jeans si trovavano solo in un mercatino a Genova: si andava lì apposta, in treno. I primi pantaloni chiari, li ho visti con sorpresa, a Roma, per il Giubileo del 1950. E i primi colorati, di velluto a zampa d’elefante, nei negozi d’avanguardia ad Amsterdam, molto dopo. I negozi di abiti confezionati parevano una novità. Normalmente, si andava dai sarti e dalle sarte per i vestiti più impegnativi, dal sartino o dalla sartina, per il resto. L’alta moda era molto differenziata: toilettes sovente pompose, in esemplare unico, per le signore ricche ai ricevimenti. Ma ci vollero anni e anni perché si usassero i jeans per i giovani, invece dei pantaloni vecchi dell’abito “buono”.
La Facoltà di Legge (Statale) era ancora sfollata, dopo i bombardamenti, al Collegio delle Fanciulle in via della Passione: donde “jokes” interminabili, e una convivenza talvolta difficile. Un’amica già “Fanciulla” venne rimproverata dalla direttrice perché aveva salutato alcuni studenti. «Ma sono amici di mio fratello! Erano l’altra sera a casa nostra per il suo compleanno, chieda a mia madre!». «Non importa, le regole sono regole. Nessun contatto fra voi e loro».
Figuravano tra i docenti alcuni luminari illustri nel Fòro milanese di allora, ovviamente. Laureato, divenni assistente e borsista presso l’Ispi, in palazzo Clerici. Passai a Roma verso la fine degli anni Cinquanta, seguendo il trasferimento del mio professore. Ma queste naturalmente sono altre storie.
Nelle pause fra le lezioni, all’università, benché non si fosse in molti si raccoglievano i diversi gruppi: quelli del calcio, o del tennis, o del poker, o delle puttane, del ballo, della musica... Qui erano spietati quelli della Scala: inesorabili nell’osservare e commentare ogni soffio e gesto e profilo della Callas o Schwarzkopf o De Sabata o Karajan o chicchessia, da veri loggionisti tradizionali. E fu per colpa loro se non vidi la “signora Mariuccia” nel Barbiere di Siviglia. Implacabili, sentenziarono in gruppo: «Sembra un carabiniere vestito da Rosina».
Del resto, alla Scala come agli altri teatri, si compravano i biglietti anche ai posti economici pochi minuti prima dello spettacolo, come al cinema. Erano piuttosto rari i “tutto esaurito”, anche se gli interpreti erano famosissimi, come Ricci e Ruggeri e Benassi e Cimara con l’Adani, la Pagnani, la Maltagliati, la Ferrati, diretti da Visconti e Strehler al Nuovo e all’Odeon e al Piccolo, oltre che alla Scala con la Tebaldi e la Simionato e Del Monaco e Di Stefano e Gavazzeni e la Pavlova e Rossi Lemeni e innumerevoli altri divi italiani: Bastianini, Bruscantini, la Scotto, la Sciutti, la Olivero, tra Zeffirelli e Corelli, Fokine e Massine, la Wallmann, la Fracci... e graziose storie: Luchino mandò in scena Bastianini giovane senza parrucca da papà Germont, Violetta- Callas trasalì vedendolo, e mentre le signore nei palchi commentavano che il genitore era meglio di «quel panzùn del tenur», qualche marito filosofico aggiungeva che forse «l’averà connossu quand la stava in casìn». Quando poi Tito Gobbi, idolo delle madame quando si truccava da Scarpia chic (e loro: «E quella cretina della Tosca non gliela vuol dare») apparve in vesti strappate nel “Wozzeck”, novità assoluta di Alban Berg, proruppe un coro dai palchi: «Vergogna! Vergogna alla Scala! Inscì un bel omm, vestì da barbùn!». E il direttore Mitropoulos, fermando l’opera: «Per favore, lasciateci lavorare». E a quel termine allora sacro, “lavorare”, che silenzio milanese. Poi si accusarono le madame di non aver capito la musica...
Comunque il mio prozio Alfonsino, che da giovane fu espulso dalle Università perché per scommessa entrava nelle Aule Magne a cavallo, da vecchio abitava in via Durini 2, sopra il maestro Giordano, che amava le serate musicali. E il prozio protestava: «Non si può più vivere a Milano! Tutte le sere, Gigli e Caniglia e altre canaglie!». Per quelle generazionali, come del resto per Gadda, l’opera era solo un “Partiam partiam!”.
Con gli amici si andava così ogni sera a teatro, o al cinema - ottimi film di Fellini, Antonioni, Monicelli, Risi... - e non si saltavano i Pomeriggi Musicali e i grandi solisti al Nuovo: Backhaus, Gieseking, Cortot, Serkin, Clara Haskil. Meno che meno, le grandi riviste al Nuovo e al Lirico: Wanda Osiris, Totò, Dapporto, Macario, Taranto, Elena Giusti, melodie avvolgenti, coreografie importanti, canzoni mai al di sotto di una cultura liceale, per cui ogni allusione alla “Divina Commedia“ o ai “Promessi Sposi” veniva recepita sia dai commendatori con damazze delle “prime” sia dai posti in piedi nelle domeniche economiche.
Non solo diversi autori vivevano a Milano mezzo secolo fa: Buzzati, Soldati, Montale, Emanuelli, Vittorini, Sereni, Quasimodo, Ferrata, Dorfles, Ottieri, Testori, Bo, Confalonieri, Dal Fabbro, Gramigna... Ma soprattutto parecchi editori facevano con professionalità e passione il loro mestiere. Per più di trent’anni sono stato in affitto da Valentino Bompiani, nell’appartamento già di sua madre al pianterreno di via San Primo, che la famiglia voleva dare come seconda casa a un amico. E lì, quante istruttive chiacchiere, non solo sul portone.
Uscendo, andavo da Giangiacomo Feltrinelli o da Livio Garzanti, e a un tavolo in due abbiamo organizzato fior di libri senza mai una proposta di editing, neanche per sostituire un sinonimo.
Era anche un contesto di illustri architetti, quella Milano fra Muzio e Ponti e Belgioioso e Rogers e Magistretti e Gregotti e Gae Aulenti. Le mostre al Palazzo Reale venivano allestite a cura di Roberto Longhi, e riguardavano Caravaggio o i grandi “realisti” bergamaschi e bresciani, o tutto sommato Picasso. Fra i giovani di belle speranze si possono annoverare Luciano Berio, Furio Colombo, Umberto Eco.
E poi, i fotografi. Qui vanno ricordati Ugo Mulas e Carlo Bavagnoli e Mario Dondero, ogni sera intorno al grande Pietrino Bianchi che teneva banco o cattedra o tavolino al Bar Giamaica in via Brera. Ed era una potenza anche per i letterati, il Pietrino, giacché come critico cinematografico del “Giorno” aveva accesso a quell’eccellente pagina culturale; ed era direttore del settimanale “Settimo Giorno”, economico ma snob. Inoltre, aveva funzioni praticamente di redattore-capo nella tradizionale e insigne “Illustrazione italiana”, di Garzanti. E lì pubblicava i reportages maghrebini di Italo Pietra, ex-gran capo partigiano e poi lungamente direttore del “Giorno” al posto di Gaetano Baldacci.
Non ricordo se agli aperitivi serali al Giamaica si vedessero spesso artisti di “Corrente” o del “Milione” quali Cassinari o Morlotti o altri astrattisti, picassiani, materici. Ma certamente si incontrava lì ogni sera Piero Manzoni, con un faccione ridente e un po’ sudato; e Lucio Fontana produceva in Monforte “Concetti spaziali” utilizzati poi addirittura come fondali di spettacoli.
Certamente Luciano Anceschi promuoveva animatissime discussioni sugli sperimentalismi letterari ed editoriali, con pensatori giovani e anziani, in piccoli caffè ormai storici dietro la Scala o verso Piazza Meda. Ne nacque poco dopo il Gruppo 63. Senza ostriche né Caraibi né moralismi dilaganti, nelle tendenze e negli stili di vita durante il cosiddetto boom della Dolce Vita.