Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

L’AMERICA SONO IO


Jack Welch, l’ex grande capo della General Electric che divenne il beniamino dei manager americani per aver incrementato del 4 mila per cento il valore dell’azienda di cui è stato il capo fino al 2001, ha avuto una reazione tra l’isterico e l’infantile. Quando, lo scorso 5 ottobre, sono stati diffusi i dati sulla disoccupazione che raccontavano come da agosto a settembre fosse diminuita dall’8,1 al 7,8 per cento, Welch ha subito twittato: «Numeri non credibili... questi mascalzoni di Chicago sono capaci di qualsiasi cosa... perdono nei dibattiti e allora cambiano i numeri». Welch, repubblicano dichiarato, ancora molto attivo e molto influente nel mondo della finanza, non ha gradito quel segnale di miglioramento dello stato dell’economia, e ha dato degli imbroglioni al presidente Barack Obama, ai suoi consiglieri e agli esperti del Labor Department. Il suo tweet è stato seguito da un coro di critiche negative, ma Welch ha continuato anche nei giorni successivi a diffondere dubbi su quel 7,8 per cento.
La campagna presidenziale del 2012 si gioca in gran parte sulle questioni dell’economia. Welch appartiene a quella schiera di elettori che vuole cacciare Obama dalla Casa Bianca sostenendo che è un incapace e negando che siano state le scelte della precedente amministrazione repubblicana (Bush junior) a portare l’America in recessione. L’ex Mister General Electric esprime il sentimento di una larga maggioranza di repubblicani secondo i quali, se l’America non va bene, c’è l’opportunità di riprendersi la Casa Bianca. E, ovviamente, si grida all’imbroglio quando le cose si mettono meglio del previsto e la propria parte - in questo caso il candidato Mitt Romney - rischia di non farcela. Ormai mancano poco più di 10 giorni al voto e si è esaurita anche la fase dei faccia a faccia Obama-Romney che ha visto il presidente vincere per due volte ai punti e lo sfidante una sola.
La disoccupazione che diminuisce lentamente, i consumi delle famiglie frenati dai debiti, il reddito medio inferiore a quello rilevato prima della crisi, la benzina raddoppiata in pochi anni, i numeri mostruosi del debito e del deficit, quando solo 20 anni fa i conti dello Stato presentavano un saldo attivo, e che possono voler dire tagli selvaggi alla spesa sociale. Sono i temi forti di questa campagna elettorale, problemi che investono le persone direttamente e possono spostare la decisione di voto in modo determinante. C’è da scegliere tra due strade. La prima è la via indicata dal presidente Barack Obama secondo il quale «non ci sono scorciatoie o soluzioni miracolose per rimettere a posto l’economia... e ci vorrà tempo per una ripresa completa». Lo strumento chiave è mettere la middle class e la piccola impresa in grado di sentire meno il peso dell’andamento negativo e chiedendo al 2 per cento degli americani con un reddito superiore ai 250 mila dollari l’anno un contributo fiscale più alto. La seconda strada è quella offerta da Mitt Romney, l’ex governatore del Massachusetts, secondo il quale il presidente «ha fallito in parte perché non ha idea su come funziona l’impresa privata e come si creano posti di lavoro». La soluzione è giù le tasse, tagli alla spesa pubblica (tranne quella della difesa), governo fuori da qualsiasi decisione riguardi i privati.
Sono due visioni di una società fondata sull’economia di mercato, e gli americani sono chiamati a scegliere martedì 6 novembre. Una è più attenta ai problemi della redistribuzione delle risorse e agli equilibri sociali, l’altra è religiosamente convinta che l’attività di tanti singoli lasciati liberi di fare crea comunque ricchezza per tutti. Lo scontro avviene proprio mentre l’America sta uscendo dalla crisi del 2007-2008 a piccoli passi. Infatti, mentre tutte le altre recessioni del dopoguerra sono state seguite da una ripresa forte e veloce, questa volta sembra di rivivere la stagione del Grande Crack del 1929, quando un primo miglioramento fu seguito da una seconda crisi.
Uno che di Casa Bianca se ne intende, l’ex presidente Bill Clinton, e che ha vinto due elezioni presidenziali spiegando agli americani che l’economia è la bilancia che fa pendere i voti da una parte o dall’altra, si è schierato apertamente dalla parte di Obama e sta facendo da settimane campagna elettorale per lui. In Ohio, Stato sempre in bilico tra democratici e repubblicani e quindi da coltivare con passione, Clinton ha messo in chiaro il gioco allo sfascio dei repubblicani: «Hanno parlato del tasso di disoccupazione per oltre tre anni come si trattasse delle tavole portate da Mosè dal Monte Sinai. Adesso che siamo sotto l’8 per cento dicono che le cifre sono state manomesse». Stando al dato diffuso poche settimane fa, siamo al punto più basso di disoccupazione da quando Obama è presidente, ma pesa come un macigno il numero totale dei senza lavoro: 23 milioni di americani.
Barack Obama e Mitt Romney vedono questa fase dell’economia davvero in modo diverso e la loro visione è supportata da economisti di scuole differenti. Robert Reich, oggi professore di Public Policy all’università di Berkeley (California), negli anni Novanta ministro del lavoro di Clinton, mette in guardia chi vede con favore il piano di Romney: «Il candidato repubblicano ha ragione a dire che le cose non vanno bene, ma la sua ricetta - tagli alle tasse per i ricchi e le grandi società - non porterà a niente all’infuori di un deficit più grande. E i tagli che propone negli investimenti nel campo dell’educazione e delle infrastrutture, oltre che nel Medicare e nel Medicaid, sfileranno altro denaro dalle tasche di coloro che ne hanno bisogno, deprimendo ancora di più i consumi».
A sostegno di Romney c’è una larga schiera di economisti di cultura liberista. Glenn Hubbard, numero uno della business school di Columbia University, per due anni capo del Council of Economic Advisers di George W. Bush, indicato come possibile Segretario al Tesoro o numero uno della Federal Reserve se Romney dovesse vincere, è uno dei principali sostegni teorici alle proposte avanzate dal candidato repubblicano: «Il piano di Romney intende ridurre il peso del debito e stimolare la crescita con tagli alla spesa e una riforma fiscale. La spesa del governo federale deve essere il 20 per cento del Pil entro il 2016 e al tempo stesso va ridotta gradualmente la spesa per il Social Security e il Medicare, in particolare per i redditi elevati. Le società dovranno pagare al massimo un’aliquota del 30 per cento e gli individui del 20 per cento, ma bisognerà allargare l’elenco delle cose tassabili per bilanciare la riduzione delle entrate fiscali».
A pochi giorni dal voto i dati positivi sull’economia sembrano essere più numerosi di quelli negativi. Se è vero che la crescita del secondo trimestre del 2012 è stata più bassa del previsto (più 1,3 per cento contro una stima di più 1,7 per cento), è ripartito il mercato delle case già esistenti, le vendite delle auto hanno segnato un più 13 per cento nel mese di settembre, e l’ultima asta di bond federali a 10 anni è andata esaurita soprattutto presso i clienti istituzionali stranieri. Tutti segni di fiducia che però non sembrano toccare le decisioni delle grandi compagnie americane, immobili da un paio di anni e in attesa di sapere che cosa accadrà a livello politico. A cominciare dalle decisioni che saranno prese negli ultimi due mesi del 2012. Se democratici e repubblicani non troveranno un accordo, il prossimo primo gennaio prenderà corpo il cosiddetto Fiscal Cliff, il burrone fiscale. Ci saranno un automatico aumento delle tasse per tutti, perché decadranno tutti i vantaggi varati a cominciare dal 2001 per un controvalore di 400 miliardi di dollari e un altrettanto automatico taglio della spesa pubblica per un valore stimato intorno ai 200 miliardi di dollari. In tutto una manovra da 600 miliardi di dollari che può creare un corto circuito nel Paese dagli effetti imprevedibili. La Federal Reserve ha ipotizzato nel Beige Book, rapporto sull’andamento dell’economia, che quello potrebbe essere l’innesco di una nuova crisi.
Un dato racconta in modo esemplare il comportamento delle grandi società rispetto al futuro prossimo: nelle casse delle corporation quotate in Borsa, in contanti o in investimenti finanziari a breve termine, ci sono oltre 2 mila miliardi di dollari. Ventinove aziende mantengono più riserve liquide di quante ne abbia il governo federale che dispone di quasi 40 miliardi di dollari cash. Il perché di questa scelta è oggetto di dibattito: da parte democratica si avanza il sospetto che i big dell’economia vogliono rendere difficile la vita a Obama e aspettano la fine del 2012 in attesa di un repubblicano che dia il via libera a meno tasse, i repubblicani utilizzano questo dato per dire che le politiche della Casa Bianca ostacolano investimenti e portano a frenare nuove iniziative per le troppe intrusioni del governo, citando a questo proposito la legge Dodd-Frank sulle nuove regole per banche e grandi istituzioni finanziarie come un ostacolo allo sviluppo e non invece un modo per evitare gli errori e gli abusi che hanno portato alla crisi.
In questa ultima fase di campagna presidenziale, con l’intero paese pronto a eleggere il nuovo presidente e a rinnovare l’intera Camera e un terzo del Senato, il barometro dei sondaggi viene visto come la sfera di cristallo capace di indicare il futuro prossimo dell’America. Ormai da settimane la distanza tra Obama e Romney a livello nazionale è ridotta a qualche decimale, in favore dell’uno o dell’altro a seconda della società di sondaggi o dell’avvenimento del giorno prima. Questo indica che, con larga probabilità, sarà una elezione decisa al fotofinish dal risultato negli swing states, quelli in cui di volta in volta viene votato il candidato che più convince, senza preclusioni ideologiche, democratiche come repubblicane.
Ci sono alcuni rilevazioni delle ultime settimane che provano a raccontare la pancia di Main Street e che non si basano sulle intenzioni di voto. Oggi, il 40 per cento degli americani ritiene che il paese sia sulla giusta strada per chiudere con la crisi del 2007-2008, mentre solo un anno fa a pensarla così erano in 23 su 100. E il 31 per cento del campione pensa che l’economia stia andando molto bene o abbastanza bene, mentre l’anno scorso erano solo 14 su cento. Forse l’America ha ripreso a sorridere, mentre si avvia alle urne per scegliere tra Barack Obama e Mitt Romney.