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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

MINISTRO A SUA INSAPUTA


Il diavolo si annida nei dettagli. Il 5 luglio scorso, nelle ore in cui il Consiglio dei ministri in seduta fiume varava la spending review, Lorenzo Ornaghi era a Pechino. Mentre il governo Monti, come previsto, tagliava con crudeltà il capitolo dei Beni culturali, anziché battere i pugni sul tavolo il ministro responsabile presenziava all’inaugurazione cinese della mostra sul "Rinascimento a Firenze" (suggerendo polemiche a Italia Nostra e al mondo universitario sulla spedizione oltreoceano di opere assai delicate).
Dettaglio due. Il governo si è insediato nel novembre 2011. Ma solo lo scorso settembre, dieci mesi dopo, il ministro Ornaghi si è deciso a recarsi all’Aquila, tuttora sbarrata dopo il sisma del 2009. Nonostante disti un’ora da Roma, c’è voluta l’insistenza del ministro Fabrizio Barca, impegnato per reperire i fondi europei per la ricostruzione. Ha visitato i pochi cantieri avviati prima della sua nomina, come il Teatro Comunale e il palazzetto dei Nobili, da uomo pio si è soffermato sulle chiese, e quanto ai 206 milioni destinati nel triennio 2013-15 ha ceduto la parola al collega economista.
Dettaglio tre. A maggio, a Milano, c’era da rinnovare il consiglio di amministrazione del Teatro alla Scala. Per sostituire il finanziere-pianista Francesco Micheli, inventore del festival MiTo e leone dei salotti, il ministro ha nominato un giovin signore ignoto ai più, Alessandro Tuzzi, vice direttore amministrativo dell’Università Cattolica, ma soprattutto allievo prediletto del rettore uscente: che è Ornaghi. A lui ha affiancato un’altra sorprendente consigliera, Margherita Zambon, la cui famiglia controlla un gruppo farmaceutico con sede a Vicenza.
Così, quando il ministro-che-non-c’è, il devoto professor Ornaghi dai completi grigi, ha piazzato Giovanna Melandri, figura tutta politica, alla presidenza dell’ambito Maxxi di Roma, è scoppiata una bomba in sagrestia, con fumi, feriti e infermieri. Diradato il polverone, il ministro ha voluto rimarcare che la figura di lei (che avviò il progetto Maxxi durante il governo D’Alema) è stata da lui scelta in totale autonomia. Ma si sospetta l’astuto zampino del Richelieu del dicastero, il dg per lo Spettacolo dal vivo, Salvo Nastasi, capo gabinetto bipartisan degli ultimi ministri, forse in cerca di sponda a sinistra e comunque genero di Giovanni Minoli, cugino di Melandri (non a caso nei mesi scorsi era circolato per il museo proprio il nome di Minoli).
Il Maxxi è tuttora in affanno, nonostante la buona lena con cui il commissario straordinario, Antonia Pasqua Recchia, è riuscita, pare, a portare in pareggio il prossimo bilancio 2012, a far risalire il contributo degli sponsor privati, e a chiudere l’anno con 300 mila visitatori. Perché da mesi si viaggia a mostre ridotte, acquisizioni congelate, personale tagliato. Tanto che qualcuno si augurava che il commissario restasse più a lungo o che entrasse nel consiglio di amministrazione. Oggi circa il 40 per cento del personale è pagato dal ministero.
Ornaghi è un ministro controvoglia. Preferiva l’Istruzione. Un po’ come Giuliano Urbani nel governo Berlusconi: anch’egli politologo, ambiva a tutt’altro. Che l’ex rettore della Cattolica, il professore di Villasanta, presso Monza, un cosiddetto "milanese arioso", zitellone alla Testori ma noiosone nell’eloquio, avesse la testa altrove è confermato da alcune sue decisioni che hanno stupito tutti. Alla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali, massimo organo consultivo, dove avevano operato personalità come Federico Zeri, Salvatore Settis e Andrea Carandini, Ornaghi ha nominato un filosofo del diritto, Francesco Maria De Sanctis, e come consiglieri altri amici accademici, il rettore della Statale di Milano Enrico Decleva, una politologa emerita, Gloria Pirzio Ammassari, e l’immancabile collega della Cattolica, Albino Claudio Bosio, preside di Psicologia; l’unico che mastichi d’arte è Antonio Paolucci, che in verità già dirige i Musei Vaticani. Squadra singolare.
Ma colpisce di più che l’uomo caro alla Conferenza episcopale abbia subìto tacendo l’eliminazione dei comitati tecnico-scientifici, cuore pensante del ministero: un passo vivamente deplorato sul "Corriere della Sera" dallo stesso Carandini, che prevede fondi ulteriormente dimezzati, 86 milioni appena, per l’anno prossimo. Mastica anche più amaro («Ornaghi ha la genuflessione facile») l’antichista Salvatore Settis, che nel governo Monti poteva essere candidato naturale alla poltrona di cui parliamo. Ma così è.
Un altro dei primi atti ornaghiani al ministero (Mibac) è stata la conferma delle sottocommissioni che erogano i contributi alle opere cinematografiche, un’infornata di esponenti in quota Pdl fatta dall’uscente ministro Galan, tra cui le mogli del commissario Agcom Antonio Martusciello e del senatore Antonio D’Alì. Nel campo dei consulenti, che in genere mutano con lo spoil system, è rimasto intoccato un altro Invisible Man come lo scrittore Alain Elkann. Ma a confermare lo status quo senza troppo controllare si rischiano gaffe ben più serie. Il 24 maggio Marino Massimo De Caro, consigliere per l’editoria dai tempi di Galan, è finito agli arresti con l’accusa di aver sottratto una quantità di libri rari alla Biblioteca dei Girolamini di Napoli, alla Nazionale, alla Capitolare di Padova, quella del seminario di Verona e forse anche di Montecassino. Una performance sbalorditiva, se verrà confermata in giudizio, dinanzi alla quale Ornaghi ha commentato con aplomb alla David Niven: «Non l’ho nominato io».
Dentro al Mibac il ministro controvoglia avrebbe una guida esperta e fidata, l’ex segretario generale Roberto Cecchi, ora sottosegretario. Ma Cecchi, scontratosi con il potente Nastasi, appare tenuto a distanza da Ornaghi. All’ultima conferenza stampa sul restauro del Colosseo finanziato dal gruppo Della Valle, operazione nata proprio con Cecchi, questi nemmeno era presente.
Il ministro guadagna bene, 194 mila euro lordi. Non si sposta volentieri. Ma sa sopire e troncare con garbo. Ha definito strategici tre temi prioritari, Colosseo, Pompei e Grande Brera a Milano. Visita di mostre? Se proprio si deve, come alla "Resurrezione di Lazzaro" del Caravaggio, su insistenza del ministro dell’Interno Cancellieri. Taglio di nastri? Qualcuno, come a Vicenza (dove lui non c’entra nulla) per la Basilica Palladiana riaperta dopo sei anni grazie alla Fondazione Cariverona. All’Associazione dei musei di arte contemporanea l’hanno atteso per mesi, mentre il Madre di Napoli langue paralizzato e al Castello di Rivoli si procede con attività ridotta. A Pompei aspettano entro la fine dell’anno la destinazione di 105 milioni di euro stanziati dal commissario europeo Johannes Hahn, ma i primi bandi per il recupero di alcune domus arrivano a 6 milioni, non di più. A Milano invocano il trasloco dell’Accademia di Brera per dare spazio alla Pinacoteca? Ornaghi dice: pazientare. Il sindaco Alemanno chiede aiuto per la Fontana di Trevi? Ornaghi traccheggia. Il Maggio fiorentino reclama 100 milioni a quattro ministeri per completare il Parco della Musica? Ornaghi assicura «un’azione concertata».
E qui ritorniamo al suo imprinting Cei e Cattolica. Per dare le dimissioni da rettore ci ha messo dieci mesi. E tuttavia ha mantenuto in Cattolica la direzione dell’Aseri, l’Alta scuola di economia e relazioni internazionali, dove il politologo Vittorio E. Parsi figura come delegato ma non lo ha sostituito. Ornaghi vanta un buon rapporto con Cl, i cui spazi dentro l’ateneo sono cresciuti senza che lui ponesse ostacoli; rispettava l’ex cardinale Tettamanzi, ma preferisce il cardinal Bagnasco. Tenace equilibrista, ha soprannomi come Ponzio Pilato o Sor Tentenna, e non è nuovo agli incarichi paralleli. Fino al 2011 è stato consigliere di "Avvenire", il giornale della Cei, fino al 2009 consigliere del Policlinico; è membro della commissione Giustizia e Pace della Diocesi di Milano, dirige la rivista "Vita e pensiero". Varie cose, purché non si parli di Michelangelo o di Boccioni.
Un capolavoro dell’arte di divagare sono le sue interviste all’"Avvenire", rilasciate a Marco Tarquinio, il direttore. Hanno qualche vezzo accademico, un tono educato a tratti pedante. Il clou è del 20 settembre, quando il ministro si dilunga sul bipolarismo imperfetto, la lontananza del ceto politico dagli elettori, il ruolo dei cattolici, e riesce a non nominare mai, in una paginona intera, quelle due parole a lui straniere: beni culturali.