Marco Damilano, l’Espresso 26/10/2012, 26 ottobre 2012
MI FACCIO IN QUATTRO
[Silvio Berlusconi]
Se lo contendono, come una reliquia. Lo tirano di qua e di là, lo strattonano senza pudore. Antichi colonnelli, giovani delfini già appassiti, amazzoni ingrate, vecchi marpioni, pasionarie ingiallite si preparano a spartirsi quel che resta dell’eredità politica più ambita, la creatura di Silvio Berlusconi fondata in piazza San Babila la sera del 18 novembre di cinque anni fa e affossata in questo autunno 2012. Con il terrore che alla fine il Cavaliere decida di invertire la marcia, organizzare una contro-discesa in campo, un anti-predellino che avrebbe lo stesso effetto dell’ingresso in politica diciotto anni fa. Un clamoroso addio alla scena, nessun partito di Silvio, nessuna candidatura alla Camera o al Senato, nulla di nulla. Giove si ritira sull’Olimpo, gli altri, i comuni mortali, facciano come vogliono, lui non ci sta più.
Martedì 23 ottobre, a pochi giorni dalle elezioni regionali in Sicilia in cui il Pdl si gioca gran parte del suo futuro (se riesce a mantenere il primato nell’isola che fu generosissima di consensi sarà un miracolo e proverà ad andare avanti, in caso contrario si sbaracca senza supplementi di agonia), le riunioni di Montecitorio danno il senso dello sfaldamento. Al primo piano Gianni Letta segue intensamente la presentazione di un libro su Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della Dc che nel 1993, di fronte al crollo del partito-Stato, sospirò: «Dio si è voltato dall’altra parte». A un corridoio di distanza, nella sala della Regina, il premier Mario Monti inaugura una mostra su Tommaso Moro, il santo patrono dei politici. «Il mondo è fuori di sesto», la sentenza di William Shakespeare accoglie la piccola folla di parlamentari del Pdl che accompagna Monti. Valentino Valentini, il deputato-interprete del Cavaliere nei tempi belli, Giorgio Lainati, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi che ha organizzato la serata si aggirano un po’ attoniti tra inginocchiatoi, mappamondi, l’ascia del boia con tanto di ceppo su cui appoggiare la testa, tutto poco allegro, in effetti. Nel cortile il colossale Guido Crosetto attende di parlare con Daniela Santanchè, appena scomunicata dai capigruppo Cicchitto e Quagliariello: «Dice che il Pdl è finito per farci perdere in Sicilia». L’unico contento appare l’ex presidente della regione Liguria Sandro Biasotti: «C’era la sala piena», racconta. Ma non si tratta di un incontro del Pdl: il deputato riferisce della tappa di Matteo Renzi a Genova, con invidia: «C’erano tutti i nostri: e ci sarei andato anch’io. Qui non si muove più nulla».
Berlusconi? Berlusconi non c’è. È un inedito, l’assenza, in questo autunno del centrodestra. «L’altro giorno mi ha telefonato», racconta Crosetto, «aveva saputo che dovevo andare in televisione e mi ha tenuto venticinque minuti su quello che avrei dovuto dire: in Italia non si può fare niente, il premier non ha poteri, non può neppure revocare i ministri, ci sono il Parlamento, il Quirinale e la Consulta che bloccano le sue riforme...». Discorsi già sentiti, già. «Berlusconi sta distruggendo tutto quello che ha costruito, non ha neppure il coraggio di dirci cosa pensa davvero, manda avanti le ragazze». A posto di Berlusconi parlano le portavoci. La Santanchè scatenata contro il segretario Angelino Alfano, cui riserva il trattamento Fini, gli stessi epiteti che usò quando lasciò An: «Gianfranco ha le palle di velluto». E la new entry Micaela Biancofiore, la bionda deputata altoatesina, la vera depositaria della linea del Capo. «Lei è in buona fede e Berlusconi se ne serve. Al contrario di Daniela, che lo usa per i suoi interessi», raccontano nel Pdl. La settimana scorsa la Biancofiore era stata incaricata di sondare la possibilità di fare un gruppo autonomo alla Camera di fedelissimi berlusconiani, in vista della presentazione di una lista elettorale: chi ha il gruppo parlamentare non deve raccogliere le firme per candidarsi. «Devi dirmi da che parte stai: con il Presidente o con Alfano?», si sono sentiti chiedere i possibili transfughi.
Fosse così facile la scelta: «Il Pdl è un campo di Agramante», ammette il ciellino Mario Mauro, vicepresidente del Parlamento europeo. Ci sono i montiani e gli anti-montiani. Tra i primi ci sono i rinnovatori, convinti che alle prossime elezioni bisogna costruire un soggetto nuovo con chi ci sta, da Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo a Fermare il declino di Oscar Giannino: l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, i sindaci formattatori, i liberali post-berlusconiani Isabella Bertolini e Giorgio Stracquadanio. E ci sono i democristiani che puntano a riunire una parte del Pdl con i centristi di Pier Ferdinando Casini: il padre nobile Giuseppe Pisanu, il pugliese Raffaele Fitto, nel gruppo ci sarebbe anche Claudio Scajola, ma si trova azzoppato dall’ennesima inchiesta giudiziaria. Sul fronte opposto, gli anti-montiani, c’è il gruppo Santanchè-Biancofiore, ma anche gli ex An di Ignazio La Russa e dell’eternamente giovane Giorgia Meloni, divisi tra la tentazione di mollare il vecchio partito e fare da soli e la necessità elettorale di restare nel Pdl. E poi c’è il corpaccione del partito, terrorizzato dall’avvicinarsi del 2013 senza squadra e senza capitano. Le ex ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. I socialisti di Fabrizio Cicchitto che rispolverano la sigla Lib-Lab (liberali-laburisti), di moda quando la Champions League si chiamava Coppa dei Campioni e andava in onda in bianco e nero. I teo-con di Gaetano Quagliariello e di Eugenia Roccella, promotori con Maurizio Gasparri di un manifesto conservatore con la riscoperta di Dio, patria e famiglia, pensa te la modernizzazione. E il segretario Alfano che prova a costruire il ponte tibetano, il sentiero fragile che conduce alle elezioni 2013, giocando sull’intreccio tra i voti in Sicilia, Lombardia e Lazio e l’appuntamento nazionale per riscrivere la mappa delle alleanze. Una vittoria in Sicilia restituirebbe ossigeno al delfino berlusconiano, il primo risultato positivo della sua segreteria, e consentirebbe di riprendere il dialogo con Casini, come consiglia il presidente del Senato Renato Schifani, che ha rilanciato l’alleanza dei moderati. In Lombardia, intanto, Alfano progetta lo scambio con l’amico Roberto Maroni, la poltrona che fu di Roberto Formigoni per il capo leghista in cambio di un patto elettorale con il Carroccio nel Nord. «Ma non si può costruire un’alleanza dei moderati senza rompere con la Lega e con la destra populista», avverte Pisanu.
Già, difficile tenere tutto insieme. L’unico che ci è riuscito tace da mesi. E nel silenzio di Berlusconi, nelle sue assenze, c’è un indizio di verità sul futuro che il Cavaliere sta preparando per sé e per il Pdl. Una exit strategy che lo consegni alla storia con l’immagine del leader disinteressato e sconfitto. Anche perché il vero interesse è sempre lo stesso: le aziende, la cassaforte, il patrimonio. Negli ultimi mesi sulla scrivania di Arcore si accumulano i dati negativi su Mediaset. Un bollettino di guerra: riduzione del valore del titolo in Borsa, meno dieci per cento nell’ultima settimana, calo della pubblicità, format fossilizzati, scarsa apertura sui mercati internazionali, forte indebitamento con le banche, una perdita di bilancio stimata in 97 milioni di euro. Quasi gli stessi dati del 1992-93 che provocarono la discesa in politica di Berlusconi. E che oggi potrebbero motivare il percorso inverso: con la ricerca di un socio straniero con cui condividere il patrimonio. Una scelta che avrebbe agli occhi del Cavaliere almeno tre vantaggi: rilanciare Mediaset all’estero, un altro azionista in casa che farebbe da mediatore nella spartizione del patrimonio tra i figli di prime e seconde nozze, infine nessun governo, neppure uno guidato dal tandem Bersani-Vendola, potrebbe danneggiare un’azienda che è riuscita a rilanciarsi con un partner internazionale.
Letta e Fedele Confalonieri premono su Berlusconi per questa soluzione. Consigliano un addio soft, un messaggio agli italiani che potrebbe suonare così: «Ho promesso che se non fossi riuscito a cambiare l’Italia non sarei rimasto incollato alla sedia come un politicante qualsiasi». Berlusconi aggiunge altri elementi di giudizio. La quasi certezza di assoluzione nel processo Ruby, almeno per l’accusa di istigazione alla prostituzione minorile. L’incertezza di una campagna elettorale in cui non sarebbe protagonista. Anzi, sarebbe costretto a inseguire: non solo il Pd, ma soprattutto il Movimento 5 Stelle che pesca nell’elettorato berlusconiano deluso. E c’è la convinzione, infine, che la prossima legislatura sarà caotica e brevissima: dopo un anno si potrebbe tornare a votare, meglio restare fermi un giro. Ma la cerimonia degli addii berlusconiana sarà molto dolorosa per le due fazioni che si contendono il Cavaliere: ciò che resta del Pdl di Alfano e le amazzoni Santanchè-Biancofiore. Berlusconi ha del resto annunciato una misura che fa male: ha già tagliato (da 5 a 4 milioni) la fideiussione che garantisce la vita del Pdl, dalla prossima campagna elettorale il partito non potrà più contare sulle garanzie personali del premier (oltre 178 milioni per Forza Italia). Viveri tagliati, bocche asciutte. E nel Pdl ragionano ora di lasciare la sede di via dell’Umiltà. Anche un’ipotetica lista berlusconiana dovrebbe camminare con le sue gambe. «Ma così Berlusconi conclude la sua avventura nel peggiore dei modi: con un sistema politico sfasciato, abbandonato a Grillo», si lamentano ora nel Pdl. Troppo tardi, forse.