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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

LA GUERRA E PACE DEGLI SCRITTORI PALESTINESI


RAMALLAH. Spazio, tempo e memoria. Se fossi costretto a sintetizzare, con tre sole parole, il significato del mio viaggio in Palestina e degli incontri che, qui, ho avuto con importanti scrittori del posto, userei proprio queste: spazio, tempo e memoria. Perché ognuna di esse, qui, appare diversa da come la si era immaginata, venendo dall’Italia. Tutti, credo, sappiamo che quello della Palestina e dei suoi controversi rapporti con lo Stato di Israele è un problema che ha al proprio centro lo spazio (la terra) e la memoria di episodi lontani nel tempo (l’Olocausto, la proclamazione dello Stato di Israele nel ’48, ecc). Bene, appena arrivati, si capisce che non si era capito. Che non si erano valutati nella giusta dimensione né lo spazio né il tempo né la memoria, che qui sono tutto.
Basta entrare in Gerusalemme per notare il nostro (mio) primo errore. Ho sempre creduto che gli insediamenti israeliani sul territorio palestinese, quelli creati e abitati dai coloni (secondo il dizionario etimologico "abitatore di una colonia") sorgessero ai margini del deserto, in terre desolate e abbandonate da tutti e riportate a nuova vita, appunto, dai coloni israeliani. Non è così. Gli insediamenti sono veri e propri quartieri che sorgono all’interno stesso della città, o che la bordeggiano, ben visibili a tutti. Sono molti e si può dire che, giorno dopo giorno, abbiano finito per circondare Gerusalemme. Non solo: all’interno di Gerusalemme Est sventolano bandiere di Israele sui tetti di singoli edifici spesso sovrastati da una garitta in cui siede un uomo, di guardia.
La convivenza fra i due gruppi è, dunque, molto stretta, si sviluppa in pochi metri quadrati e tocca da vicino la vita quotidiana degli uni e degli altri. Ed è proprio la vita quotidiana dei palestinesi ad essere al centro dei romanzi di una delle più note scrittrici di qui, Suad Amiry, che mi riceve nella palazzina che abita a Ramallah, venti chilometri da Gerusalemme, con il marito Salim, notissimo intellettuale, sociologo, perennemente in giro per il mondo a tenere lezioni sulla società mediorientale a Berkeley, a Cà Foscari, ovunque serva un esperto dell’argomento. Per le sue frequenti assenze, Suad Amiry lo definisce, nei suoi libri, il mio marito part time. Suad è una bella donna, solare e mediterranea, molto lontana dallo stereotipo della palestinese che abbiamo spesso in mente. La sua straordinaria vitalità è la migliore smentita a quanto mi dice. "Purtroppo noi palestinesi siamo diventati, nell’immaginario collettivo dell’Occidente, simboli e testimoni di morte. Rimaniamo legati a poche parole, come esilio, terra, rifugiati, Gerusalemme, campi profughi. Parole che esprimono concetti collettivi e che impediscono di parlare al cuore dei lettori. Io ho voluto mettere al centro dei miei romanzi la mia personale vita quotidiana perché è qui, nella mia quotidianità, che vivo sulla pelle la nostra difficile situazione politica".
Questa sarà una costante dei miei incontri: il discorso sulla letteratura diventa inevitabilmente un discorso sulla situazione politica che, al di là dei grandi temi che suscita, ha riflessi pesantissimi sulla vita di ogni giorno. Suad Amiry, che ha dovuto aspettare quattordici anni per ottenere dalle autorità la carta d’identità, abita a pochi isolati di distanza dalla sede dell’Autorità palestinese e nel suo Sharon e mia suocera (Feltrinelli, 2007) ha raccontato i giorni dell’assedio ad Arafat e lo ha fatto, naturalmente, a modo suo, narrando le difficoltà di ogni giorno, i posti di blocco, i coprifuoco, l’impossibilità di fare la spesa e le tragicomiche traversie affrontate per convincere la suocera a trasferirsi a casa sua, mentre la donna, di fronte all’avanzare dei carri armati, si preoccupava di scegliere i vestiti più adatti in vista del trasferimento e di non dimenticare i gioielli di famiglia. In Murad Murad (Feltrinelli, 2009) racconta invece della volta in cui si è travestita da uomo per accompagnare un gruppo di giovani palestinesi al di là del muro che li separa dai territori israeliani, in cerca di un lavoro. Lavoro che, al loro arrivo, dopo ansie e pericoli, non troveranno. Dovranno confondersi con i civili del luogo e salire su un autobus che li riporti verso casa attraversando un territorio che, un tempo, era loro e che ora non riconoscono più. Per quanto sia difficile immaginare il corpo molto femminile di Suad Amiry in abiti maschili, il viaggio, andata e ritorno, è effettivamente avvenuto, con non pochi rischi.
"Siamo perennemente immersi nei contrattempi, nelle lungaggini burocratiche e nei controlli, e l’ansia che li accompagna non mi abbandona più. Anche quando sono all’estero, ormai, mi invade l’agitazione: se devo prendere un treno tra, che so, Firenze e Roma, vado alla stazione con un’ora e mezzo di anticipo, se devo volare mi presento all’aeroporto tre ore prima. È più forte di me". L’amore per la propria terra è fortissimo in lei, ma dice: "Se il prezzo da pagare per una vita normale è la cessione, per esempio, di Jaffa, che è la città d’origine della mia famiglia, sono disposta a pagarlo". Come donna mediterranea, Suad Amiry si sente tradita non tanto dagli statunitensi che, dice, non conoscono la nostra storia, ma dagli europei che, invece, la conoscono bene. "È naturale" osserva "che gli Usa interloquiscano più facilmente con gli israeliani perché sono stati coloni anche loro. Ma dagli europei mi aspettavo una solidarietà che non abbiamo avuto".

Suad sa che i tempi per una soluzione saranno lunghi, ma è ottimista. "Tutte le occupazioni prima o poi finiscono. Nessuno pensava che il Sudafrica si sarebbe liberato. Nessuno immaginava che Obama diventasse presidente. Anche la nostra occupazione finirà".
Non è altrettanto ottimista il più grande poeta palestinese, Ibrahim Nasrallah, uomo con una vita dura alle spalle. Nato e cresciuto in un campo profughi in Giordania, ha vissuto sulla pelle il Settembre Nero e visto morire fra le proprie braccia amici e parenti e ha fatto del dialogo con l’altro il tema dominante delle proprie poesie e del romanzo Dentro la notte (Ilisso, 2004). Lo incontro ad Amman, Giordania, nel suo studio, lindo e ordinato come una clinica svizzera. Alle pareti, magnifiche fotografie di cui è autore, astratte, vivissime, realizzate con una tecnica che non mi svela, rallegrate da colori accesi in netto contrasto con il tono della sua voce sommesso e dolce. I suoi dialoghi con l’altro si svolgono in un territorio senza nome e in un tempo senza tempo, costellato di viaggi che costeggiano la morte, sorretti dalla memoria forte di un passato doloroso e dal sogno incerto di un futuro.

"Ogni scrittore palestinese" mi dice "scrive la propria parte di un romanzo collettivo. È sulle pagine, complementari, dei libri, che avviene il nostro incontro. Nella realtà, invece, ci vediamo magari dopo anni, perché per tutti muoversi, attraversare i nostri spazi, non è facile ". Il tempo. Lo spazio, ancora. E la memoria. Che cita quando parliamo del successo internazionale dei principali scrittori israeliani: "La differenza fra noi e loro è che se noi volessimo arrivare a parlare con tutto il mondo dovremmo farlo dimenticando la nostra sofferenza, che nasce nel passato, mentre gli scrittori israeliani parlano a tutti attraverso il ricordo costante dell’Olocausto". Due diversi tipi di memoria, una cancella, l’altra resuscita. Eppure Ibrahim Nasrallah, come altri, si era aspettato molto dai colleghi israeliani. Ma, dice, "in 64 anni ci sono stati storici israeliani che hanno parlato con obiettività di ciò che abbiamo vissuto. Gli scrittori hanno taciuto ". Con amarezza, aggiunge: "Soffriamo di una macchina propagandistica che sfrutta il senso di colpa internazionale. Così le nostre opere non arrivano al mondo, figuriamoci le nostre sofferenze. C’è la paura, da parte di tutti, di essere definiti antisemiti, quando parlano di noi". Congedandomi, con infinita tristezza, come il protagonista del suo romanzo, Ibrahim ripete: "Noi non combattiamo per vincere, ma per non perdere i nostri diritti".
Il cielo sopra Amman è una lastra indaco e il sole infuocato, quando raggiungo, in un quartiere periferico della città ammorbata da un traffico che ha poco da invidiare a quello di Roma o Milano, Sahar Khalifah, decana degli scrittori palestinesi. La sua casa sprizza allegria, in un angolo troneggia una coppia di chitarre che è il marito a suonare, mentre lei ama il pianoforte, una parete è interamente tappezzata da una libreria straripante di libri di ogni colore e sedie e poltrone hanno fodere rosso vivo. Sahar Khalifah arriva alla letteratura dalla battaglia in favore delle donne, la cui situazione è ancora difficile. Ma c’è, oggi, un movimento femminista in ognuna delle nazioni arabe. Ci sono donne con posti importanti nelle Università, a Damasco, al Cairo, in organizzazioni non governative. "E questo è fondamentale: è nella cultura che si creano le rivoluzioni nei costumi. Siamo indietro" dice con passione "perché il movimento islamico ci ha costrette a indietreggiare, ma oggi ci sono anche uomini al nostro fianco".
Scrittrice potente (La svergognata e Primavera di fuoco, Giunti editore) disegna affreschi drammatici e aspri, coinvolgenti. Al centro delle storie donne decise a tutto e giovani sul pericoloso crinale che separa l’impegno per la propria terra dal cedimento alle lusinghe del successo mediatico.
Il dito è puntato contro il fanatismo religioso. "Il problema nasce quando si considera la religione una nazionalità. Invece, non dovrebbe avere niente a che fare con la politica. Noi possiamo convivere benissimo con gli ebrei, lo abbiamo sempre fatto. Comunque, siccome la politica è l’arte del possibile, mi rassegno all’idea dei due Stati vicini che rispettano i reciproci diritti ". Ma nell’aria c’è un forte risveglio della coscienza araba: giovani studenti disoccupati, donne, intellettuali, cominciano a pensare che è nell’Unità araba, nel ricordo delle radici comuni, la soluzione. Fino alla prima guerra mondiale gli arabi erano un unico Stato, nel quale convivevano convinzioni religiose diverse. "Poi ci hanno diviso. Ma, in fondo, anche Italia e Spagna, un tempo, erano divise. Perché non crederci, allora?".
A non credere all’ipotesi "araba" è Sayed Kashua, narratore trentasettenne (Arabi danzanti e E fu mattina, Guanda). "Spero che gli israeliani cambino idea su di noi e che i palestinesi ce la facciano da soli". Me lo dice sulla terrazza di un bar nella parte ebraica di Gerusalemme, dove vive. Kashua è un arabo israeliano, nato nel Nord di Israele, a Al Tira. Tiene una rubrica settimanale sul quotidiano israeliano Haaretz e scrive in ebraico. Il che gli attira critiche da una parte e dall’altra. Pochi anni fa, insieme alla figlia, è stato minacciato di morte da estremisti israeliani e, in quell’occasione, ha abbandonato Gerusalemme, si è ritirato nella sua città natale e lì ha scritto E fu mattina, il racconto straziante di un uomo che si sente straniero ovunque: considerato, durante la seconda Intifada, un pericoloso palestinese dagli israeliani e dai palestinesi un collaborazionista. Dopo la pubblicazione del romanzo, è tornato a Gerusalemme e ha ripreso il lavoro giornalistico. "Uso la lingua ebraica come uno strumento, non come un’ideologia. Mi serve per raccontare agli israeliani la nostra vita di ogni giorno" e, infatti, nella sua rubrica settimanale, Kashua racconta addirittura episodi della vita domestica, la moglie, i figli, così come fa, nei romanzi, Suad Amiry. "Il mio nuovo romanzo, che uscirà presto in Italia, ha venduto in Israele ottantamila copie, ha fatto di me uno scrittore famoso. Questo significa che qualcosa si sta muovendo, no?". Mi racconta la trama del nuovo libro, molto divertente, fatta di scambi di identità fra un arabo e un israeliano e di un amore fra una donna israeliana e un giovane arabo.
"Continuo a scrivere in ebraico, che è la lingua che ha formato la mia cultura, e continuerò a farlo anche se, un giorno, Yehoshua mi ha invitato a scrivere in arabo e a lasciare l’ebraico agli israeliani. Stimo gli scrittori israeliani, li conosco, sono stato al funerale del figlio di Grossman morto in guerra, ma non basta la stima personale a non farmi sentire, nei loro testi, forti accenti di sionismo e una considerazione di noi arabi come bambini, immaturi e ignoranti. In questa rappresentazione sono imprecisi". Sayed Kashua usa proprio la parola imprecisi, quasi a sottolineare quanto sia importante per lui un uso corretto, e strategico, della lingua. Pochi giorni prima, il giovane poeta Najwan Darwish, un tipo strano e simpatico e perentorio nelle dichiarazioni - che ha scritto una bellissima raccolta di poesie dal titolo significativo Je me lèverai un jour e che riesco a incontrare dopo infinite difficoltà e depistaggi - a proposito del trio Yehoshua, Oz, Grossman, meno diplomaticamente ha detto: "Sono tre bugiardi, che si dicono di sinistra e rappresentano Israele come un Paese normale".

"Non so per quanto tempo potrò continuare a criticare la politica israeliana dalle colonne del giornale" continua Kashua, "ma finché potrò farlo lo farò. Scrivo per il popolo ebraico, per fare capire come siamo e come desideriamo vivere. Fra i due popoli c’è e può esserci amicizia. Si ha voglia di dimenticare i problemi politici che stanno sopra le nostre teste".
Ecco, di nuovo, la memoria e l’oblio, il passato che deve restare ma che non deve impedire il dialogo e l’amicizia. Sayed Kashua ha avuto un nonno morto nel ’48, un padre arrestato nel ’69 che ha vissuto quattro anni fra prigione e arresti domiciliari, ma continua a credere che saranno la cultura e la condivisione delle esperienze quotidiane la soluzione. Attualmente sta lavorando per la tv israeliana alla sceneggiatura di una telenovela e ha fatto del bar in cui sediamo una location per alcune riprese. Per questo birre e alcolici ci vengono offerti, gratis, e con evidente simpatia dalle ragazze che servono ai tavoli. Negli occhi di Sayed c’è un sorriso complice. In quelli delle ragazze l’ammirazione e la deferenza per un giovane scrittore famoso. Certamente, non sanno che è arabo. Non sanno che scrive in ebraico. Sanno che racconta storie di gente come loro, in precario equilibrio fra le difficoltà di ogni giorno e la speranza di una vita da vivere insieme. Pacificamente. Gustando una birra sulla terrazza di un bar, nel tramonto rosa che avvolge Gerusalemme. In un silenzio senza spari e violenze e dolori, in cui la memoria possa accogliere solo buoni ricordi. E in cui il tempo e lo spazio circondino una vita senza strappi.