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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

LA SPICCATA CAPACITÀ DI DELINQUERE VALE PER VALLANZASCA


Continua la saga delle sentenze rococò. Grazie a un disegno di legge semplicemente vergognoso che in questi giorni circola in parlamento (un parlamento dove le persone mediamente oneste sono persino più rare di quelle anche solo mediamente istruite, un parlamento d’inetti e di scrocconi, di voltagabbana, di corrotti e baiadere) riciccia la condanna a 14 mesi di prigione randellata sulla testa del direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, da una magistratura che ormai da decenni, senza che la politica osi intervenire, sta giocando col fuoco. Sallusti, che, come tutti i direttori di giornale ha qualche precedente per diffamazione sulla gobba, viene condannato per la sua «spiccata capacità a delinquere», roba che in un mondo civile vale per Renato Vallanzasca, o per Al Capone, e non per i cronisti che ne raccontano le gesta.
Ma in un mondo civile i magistrati applicano la legge, non la interpretano (come da noi) il più liberamente possibile e, quando la legge è palesemente ingiusta o insensata, danno le dimissioni.
Da noi, invece, i magistrati minacciano le dimissioni quando fiutano nell’aria che le leggi inique o stolte potrebbero essere abrogate, costringendo la burocrazia giudiziaria a lavorare per vivere. Minacciano le dimissioni, però non le danno, a meno di non temere d’essere cacciati dalla magistratura, come stava forse per succedere a quel Pm famoso che prendeva in prestito centinaia di milioni dai suoi indagati, per non parlare dei telefonini a gratis, o delle Mercedes.
«Il fisico russo George Gamow (_) noto per gl’importani contributi offerti alla fisica quantistica e nucleare (_) ebbe una vita durissima. Nel 1932, insieme alla moglie, cercò di fuggire dall’Unione sovietica attraversando il Mar Nero con un kayak stracolmo di cioccolato e brandy; quando il cattivo tempo fece tornare a riva i due fuggitivio, Gamow riuscì a rabbonire le autorità col racconto degli esperimenti scientifici sfortunatamente falliti che aveva intrapreso in mezzo al mare» (Brian Greene, La realtà nascosta, Einaudi 2012)
A Mussolini, per applicare le sue leggi speciali, toccò mettere in piedi un tribunale speciale, dove le sentenze erano emesse da magistrati a loro volta specialissimi, per lo più squadristi e militanti del partito unico; i magistrati di professione, che all’università non avevano studiato spirito corporativo né baggianate ideologiche ma diritto, puramente e semplicemente si rifiutavano d’applicare la legislazione speciale. Ma niente paura. Novant’anni dopo la Marcia su Roma l’Italia fascista è di nuovo in piedi.
Dicono che l’articolo firmato Dreyfus, opera di Renato Farina, uomo di stretta osservanza papista e agente dei servizi segreti, dov’era noto come Agente Betulla, articolo di cui il povero Sallusti è chiamato a rispondere con 14 mesi di gattabuia, fosse una vera infamia: Betulla, pur essendo un professionista (come gazzettiere) dell’informazione e (come agente segreto) delle informazioni riservate, accusava un magistrato torinese d’aver costretto all’aborto, con una sentenza di tribunale, una tredicenne poi impazzita.
Era una notizia (grazie al cielo) infondata. Processi agli scienziati che non prevedono i terremoti sì, acciaierie chiuse e i lavoratori a spasso pure, ma l’obbligo d’aborto alle tredicenni no: questa era decisamente una calunnia. E allora? Allora si ritratta e amen.
Ho sbagliato, d’accordo: chiedo scusa, e mi correggo. A fare la figura del cretino non è stato il magistrato, in fondo, ma Betulla (e per proprietà transitiva il suo direttore, Sallusti). Sallusti chiede scusa, pubblica la smentita, se c’è da pagare paga, ed è finita lì. Che altro si vuole? Lui e Betulla, professionalmente parlando, hanno sgarrato, come diceva del Washington Post in Tutti gli uomini del presidente, e tutti lo sanno. Non si può pagare un prezzo più alto di questo. 14 mesi di galera, che sono già troppi per la maggioranza dei reati, sono una pena priva di qualsiasi logica per un giornalista che ha sballato la notizia.
«Giacomo Leopardi opponeva una tenace resistenza a chi tentava di fargli fare il bagno. Il poeta, che “mai di lavarsi ebbe diletto”, detestava cambiare la biancheria, depreca l’amico Ranieri. Del resto nel secolo precedente erano celebri gli strappi e le macchie di Restif La Bretonne, detto il Gufo, che “spingeva la trascuratezza fino alla sporcizia”. Nella stessa epoca il grosso Samule Johnson, dalle mani sporche come la parrucca grigia, aveva incautamente confidato a Boswell: “Neanch’io ho la passione della biancheria pulita”. Si dice che Schopenhauer fosse pessimista anche sull’utilità del sapone» (Giuseppe Scaraffia, Sporco, in G. Scaraffia, I piaceri dei grandi, Sellerio 2012).
Che piacere può dare condannare un innocente? O condannare un fesso? Come si può pensare che sbattendo in galera l’infame Sallusti e minacciando col pugno (attento, t’aspettiamo al varco) il perfido Betulla la Legge sarà rispettata e financo esaltata anziché (com’è avvenuto) beffata e avvilita?