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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

BERLUSCONI? UN DISSIPATORE D’ALEMA? UN EROE FALLITO


[intervista a Cesare Lanza]

Un giorno gli chiesero conto delle sue marachelle televisive, di quel colorito mix fatto di vip, culi, quiz e talk di cui era autore, e lui rispose così: «In tivvù contano gli ascolti, che condizionano la pubblicità, i profitti, la sopravvivenza. Se non accetti questo teorema, meglio lasciar perdere». Ora Cesare Lanza, 70 anni, sta scrivendo un libro, Il diario di una cicala, proprio per raccontare come lui e la sua generazione, pur avendo gli strumenti, di teorema in teorema, abbiano lasciato che l’Italia piombasse in una crisi devastante. Due matrimoni, amori sparsi, cinque figli, giornalista, scrittore, giocatore compulsivo da tavolo verde, scopritore di penne talentuose, Lanza è il cronista che raccolse lo sfogo di Indro Montanelli contro la deriva gauchista del Corriere nel 1973 e l’autore tv che mise Paolo Bonolis di fronte a Mike Tyson e a Donato Bilancia, il serial killer.
Incontro mattutino. Terrazza meravigliosa nel quartiere Coppedé, a Roma. Cesare sbocconcella una torta di mele e srotola il suo flusso di coscienza: travolge la classe dirigente del Paese. Eccolo applicarsi alla Rai: «Un giorno il regista Guardì venne contattato da un direttore della tv di Stato. Pensava di ricevere un commento sugli ottimi ascolti della sua trasmissione. Invece il dirigente Rai gli chiese: “La presentatrice fotte?”. Capito? Del prodotto non gliene fregava niente». Lanza non risparmia neppure le più leggendarie icone istituzionali: «Sandro Pertini aveva una popolarità incredibile. Ma si è limitato a giocare al fustigatore di costumi. Era un amico. A lui, bandiera anti-corruzione, non ho mai avuto il coraggio di chiedere: ma secondo te, i soldi per le tue campagne elettorali e per le tue spese, da dove arrivano?». La teoria lanziana è semplice: «Dopo la ricostruzione siamo annegati nel benessere. Appagati e anestetizzati, non siamo stati capaci di individuare gli esempi virtuosi da dare al Paese. Non abbiamo capito nulla». Verrebbe da dire: «Parla per te». Se non fosse che è lo stesso Lanza ad autoflagellarsi. Dice: «Ho pronto il mio epitaffio».
Quale sarebbe?
«Il contesto/sono mesto/non riuscirò/a capirlo presto».
Tradotto?
«Sono un cretino integrale. Sono rimasto alla superficie delle cose che mi accadevano intorno. Abbiamo cavalcato il ’68 senza ascoltare chi, come Pasolini, individuava le conseguenze e i rischi delle trasformazioni in corso. Non abbiamo capito l’ingannevole opulenza degli anni Ottanta. Abbiamo vissuto come cicale. Un Paese superficiale e ignorante. Capaci solo di fare compromessi. Morirò con l’angoscia di lasciare ai nipotini un Paese devastato».
C’è chi attribuisce alla tv la responsabilità della catastrofe culturale degli ultimi venti anni.
«Abbiamo dissipato anche la nostra fortuna catodica. Ho speso undici anni della mia vita a disegnare le domeniche televisive. Con Carlo Conti, Mara Venier, Paolo Bonolis e Paola Perego. Rai e Mediaset».
Non erano trasmissioni “altissime”.
«Ne sono consapevole».
Con Bonolis hai litigato.
«Bonolis è come un personaggio di Alberto Sordi. Si lamentava perché non gli facevano fare quel che voleva. Quando gli ho chiesto perché con tutti i milioni che aveva guadagnato non si autoproduceva un grande show “alto”, lui ha sorvolato. È geniale, ma pigro, chiacchierone e un po’ vile. Come tutti i conduttori, una volta raggiunto il successo, resta abbarbicato alla formula vincente».
Bonolis dice sempre: «Ciao Darwin non lo farò mai più».
«Vedrai che lo farà anche quest’anno. In tv comunque più che dei conduttori la responsabilità è dei dirigenti».
Dissipatori da piani alti.
«In Rai l’80% delle persone pensa a come tutelare la propria poltroncina. Lorenza Lei pensava solo al successo personale, ambizione pura. Di Mauro Mazza, attuale direttore di Raiuno, è meglio che non parli…».
Mazza stroncò la tua trasmissione sul merito Socrate.
«Mi azzannò».
Era stata un flop: 11,5% su Raiuno, in prima serata.
«Molte trasmissioni sono andate peggio e sono costate di più».
Chi si salva in Rai?
«Uno su tutti: Carlo Freccero».
Lo hanno esiliato nella periferica Rai4.
«È un genio. Sogno di rifare Socrate con lui».
Tu hai lavorato molti anni anche a Mediaset.
«Dove impera la legge dell’ascolto».
Anche Confalonieri è una cicala che ha dissipato la chance di cambiare in meglio il Paese?
«Confalonieri ha fatto qualche tentativo di alzare il livello delle trasmissioni. Ma non è mai andato fino in fondo. Non credo che lui abbia molta autonomia. Mi hanno raccontato un vecchio episodio che descrive bene i rapporti nella galassia berlusconiana».
Racconta.
«Siamo nel ’93, quando il Cavaliere convocò i suoi per decidere la discesa in campo. Letta e Confalonieri erano contrari. La tensione era alta. Letta arrivò a sbattere un pugno sul tavolo: “Così ci rovini tutti”, disse, teso come nessuno lo aveva mai visto. A quel punto intervenne Confalonieri: “So che di là ci sono ottimi gelati, vado a prenderli”. La riunione riprese con toni affabili».
Hai mai conosciuto Berlusconi?
«La prima volta negli anni Settanta. Angelo Rizzoli, il mio editore, organizzò un incontro per discutere di un reportage piuttosto ruvido su Milano2 che doveva uscire sul Corriere di Informazione che io dirigevo. Qualche anno dopo, su consiglio di Montanelli, Berlusconi mi chiese di dirigere la nascente TeleMilano. Rifiutai. Ma prima andai a visitare gli studi».
Gli albori della tv commerciale italiana.
«Berlusconi mi prese a braccetto e con me irruppe durante la registrazione di una trasmissione sui dentisti. Fece spostare le telecamere, diede un consiglio al regista e disse all’infermiera che doveva accorciare la sua minigonna».
Berlusconi...
«Altro dissipatore. Ha avuto la maggioranza politica più ampia della storia repubblicana. Ma di riformare il Paese gli importava poco. Sul suo rapporto con le escort ho una teoria».
Quale?
«Lui è uno che vuole primeggiare. Arrivato al massimo del potere, non aveva più rivali. A quel punto ha dovuto trovare un antagonista dentro se stesso. Ha trovato il Berlusconi nero, che pensa di essere al di sopra della legge».
Che chiama la questura per liberare Ruby spacciandola per la nipote di Mubarak.
«Esatto. E se ne fotte di magistrati, giornali, censori e benpensanti».
Mi pare una teoria troppo psicoanalitica.
«È quel che ha detto Confalonieri quando gliene ho parlato».
Tu sei stato autore di trasmissioni in cui erano presenti olgettine assortite: La Fattoria, La Talpa...
«Arrivavano le segnalazioni dagli uffici Mediaset. Barbara Guerra era molto, molto sponsorizzata».
Potevate rifiutarvi.
«Una volta lo abbiamo fatto. Al festival di Sanremo. Arrivò una segnalazione di Berlusconi che suggeriva il nome di una cantante sarda sconosciuta. Gli facemmo capire che non potevamo fare una figura così meschina».
Una volta è un po’ poco.
«Anche ai più bravi interessa poco di dare il buon esempio o di migliorare la società. Io per anni sono stato proteso al successo personale. A quel che conveniva a me. Nel Paese dei compromessi ho assistito compiaciuto agli accordi taciti tra Rai e Mediaset. Palinsesti concordati, cosette così. L’ultimo a difendere strenuamente la Rai da Mediaset è stato Biagio Agnes. Sai qual è la cosa di cui mi pento maggiormente?».
Qual è?
«Aver aderito alla campagna feroce di Camilla Cederna e dell’Espresso contro il Presidente Leone».
Lo dici per ingraziarti Giancarlo Leone, dirigente Rai e figlio dell’ex Presidente?
«Lo dico perché è stato un errore doloroso. Una incredibile mancanza di comprensione del contesto. Quando penso alla mia carriera mi convinco che avrei dovuto seguire i consigli di mia madre».
E cioè?
«Mi diceva: leggi, studia, non fare figli perché metteresti al mondo altri infelici e non dare importanza ai soldi. Ho fatto il contrario».
La tua infanzia.
«Mia madre era una pessimista. Mio padre un padre-padrone. Per me immaginava un futuro in banca. Un paio di volte a settimana tirava fuori il frustino. A sedici anni me ne sono andato di casa. Mi mantenevo vendendo Bibbie. Andai a vivere in una pensioncina nei vicoli di Genova. Era piena di puttane. Con le prostitute ho avuto sempre un ottimo rapporto. Nel 1978, dopo aver lasciato la direzione del Corriere di Informazione, mi trasferii a Londra per qualche mese. Ospite di una escort».
Quando diventi giornalista?
«Sin da bambino confezionavo un giornaletto casalingo dove compilavo cronache sportive. Il primo articolo pubblicato è stato sul Corriere Mercantile a quattordici anni».
Sei stato un giovane direttore di quotidiani, hai scritto libri, film, trasmissioni tv... sei diventato ricco?
«No. Vivo in affitto, al di sopra delle mie possibilità. Tutto quello che ho guadagnato me lo sono mangiato: dissipatore di ricchezze materiali e intellettuali. Metto me stesso in cima alla lista dei colpevoli. Chi poteva, in Italia è stato incapace di capire i fenomeni. E poi è stato incapace di affrontarli. Non parlo solo del mondo televisivo».
Fuori i nomi.
«Umberto Eco, il migliore, è anche il simbolo di un mondo intellettuale che pensa solo al proprio successo».
Eco è ultra impegnato.
«Evidentemente non abbastanza. Montanelli, come Eco, si è rivelato fondamentalmente un gigantesco pavone. L’errore più grande che gli rimprovero è l’attacco a Enrico Mattei. Ce ne fossero oggi di patrioti come Mattei!».
Dissipatori. Tra i politici...
«D’Alema, talentuoso, con una legge di cinque righe sul conflitto di interessi sarebbe potuto diventare un eroe, invece... Martelli, furbo e colto, si è lasciato inghiottire nella palude del tradimento di Craxi. E a proposito di Craxi. A me stesso rimprovero di non aver capito Bettino. L’ho conosciuto nel 1975 a casa di Lina Sotis. Prima di diventare segretario del Psi mi spiegò il suo progetto. Io non compresi le sue potenzialità».
Hai lavorato per cento giornali e dieci tv. Qual è la prima cosa che leggi o ascolti appena sveglio?
«L’editoriale di Marco Travaglio. Gli mando anche degli sms per incitarlo a non fare mai compromessi. Sarebbe bello vederlo sulla prima pagina di un grande quotidiano. O come Guardasigilli. Il mio sogno è una trasmissione con lui, Ferrara, Sgarbi e Bonolis, con incursioni di Celentano, Fiorello e Benigni».
Giuliano Ferrara e Marco Travaglio insieme?
«Sono frocio di Giuliano. Colto, ironico, elegante. Quando dirigeva Panorama, incuriosito dai miei racconti sullo chemin de fer, mi chiese un pezzo. Contro ogni regola mi disse: “Scrivi quanto vuoi e come vuoi. Basta che tu sia avvincente”. Ora gli lancio un appello: “Direttore mio direttore, quando mi fai scrivere di nuovo?”».
A cena col nemico?
«Con Lucio Presta».
Perché ti ha cacciato dal gruppo di Bonolis?
«Una volta mi ha detto: in questo mestiere o hai in mano i grandi artisti o non conti nulla e ti tocca andare in giro col piattino. Dal gruppo sono andato via io, offeso da Bonolis, rinunciando anche a molti soldi. Lucio, che stimo, ha cercato di trattenermi, per il mio bene, ma l’atmosfera era cambiata. Eravamo amici per la pelle, per me è una ferita aperta. Comunque cenerei volentieri anche con Nicole Minetti».
Perché, scusa?
«Per suggerirle come non dissipare il tesoretto politico/mediatico che ha acquisito immeritatamente».
È vero che tra le tue scoperte c’è stata anche Sarah Varetto, attuale direttore di SkyTg24?
«Sì, faceva la valletta in una trasmissione sportiva. Indossava la maglia del Torino. Era molto determinata».
Hai un clan di amici?
«I due più antichi sono Andrea d’Angelo, avvocato, e Marco Benedetto, ex amministratore del gruppo Espresso».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Sposarmi per la prima volta a 22 anni. Ero giovanissimo».
Che cosa guardi in tv?
«Molto calcio. Il calcio lo conosco davvero bene».
Il film preferito?
«Quel che resta del giorno di James Ivory».
Il libro?
«Come si fa a sceglierne uno? Ti dico l’ultimo che ho sfogliato: quello del Corriere sulle ruberie nelle Regioni».
La canzone?
«Ho già scelto quelle per il mio funerale: Hey Jude dei Beatles all’inizio della funzione, e Mamma mia degli Abba alla fine».
Sai che cosa è Twitter?
«Sì, ma detto le frasette a un nipote e poi ci pensa lui».
I confini della Siria?
«Non ne ho idea».
Sai quanto costa un pacco di pannolini?
«No».
Ma hai avuto cinque figli.
«Avrò cambiato due pannolini in vita mia. Fino a qualche anno fa non sapevo nemmeno accendere il gas».
Vittorio Zincone