Elisabetta Rosaspina, Sette 26/10/2012, 26 ottobre 2012
LE CENERENTOLE 2012 ESISTONO E S’INCONTRANO
AL SALONE JOSÉPHINE–
Si ricomincia da qui. Da uno shampoo ristrutturante che sciolga anche i nodi in gola. Da un balsamo profumato che lenisca le piaghe nascoste. Da uno smalto rosa che plachi la voglia di graffiare. Da un ombretto perlato che sfumi rabbia e dolore dallo sguardo. Dal vento del phon che soffi via il ricordo delle umiliazioni. Da un abito nuovo, con la sua etichetta ancora attaccata, perché non c’è donna che non lo valga. E dagli occhi solidali di Lucia che dicono: «Lo so. Ci sono passata anch’io».
C’è passata anche lei nel tunnel senza colori e senza aromi della solitudine. Quando non vale più la pena di farsi bella, quando le unghie servono soltanto per difendersi, i capelli per nascondere il volto, le palpebre per spegnere la luce sulla realtà; e lo specchio diventa trasparente.
Dunque è da qui che bisogna ripartire, secondo Lucia Iraci: dalla vanità femminile, mortificata sotto le tempeste dell’esistenza. Dalla voglia di sedurre, che crolla ma non muore.
Le porte del suo salone di bellezza, a Parigi, il Salone “sociale” Joséphine, si aprono a donne maltrattate dal destino o da un compagno manesco, licenziate dall’azienda o dalla famiglia, emarginate dalla società e dagli affetti. Povere e sole. Ragazze madri e nonne dimenticate. Orfane e divorziate. Sedicenni e sessantenni.
Difficilmente Cenerentola 2012 ha in vista un ballo a corte, per il quale agghindarsi. Invece del principe azzurro l’aspetta forse un colloquio con qualche burbero capo del personale; ma Lucia, la “fata Smemorina”, e la sua squadra lavoreranno al suo aspetto come se quello dovesse essere l’incontro del destino. Non sempre, ma spesso lo diventa davvero. Talvolta la scarpetta di cristallo calza alla perfezione e Lucia riceve una telefonata o un’e-mail, una decina di giorni più tardi: «Grazie! Ho avuto il posto, comincio domani…». A lavorare, a respirare, a sperare, ad amare.
Tra pane arabo e menta fresca. Generalmente, in quel caso, Cenerentola non si farà più vedere al Salone Joséphine: «Perché piano piano avrà imparato a prendersi cura di se stessa», spiega la fata Smemorina, «e noi non ne siamo rattristati: anzi, è proprio questo il nostro obiettivo». Fin dal momento in cui Cenerentola spinge per la prima volta la porta a vetri e si ritrova nel regno bianco e rosa shocking di Lucia.
L’indirizzo non è di quelli prestigiosi: 28, rue de la Charbonnière, nel XVIII arrondissement di Parigi. Sì, quello di Montmartre, ma anche della Goutte d’Or, a est della collina del Sacré Coeur, dove i “bobos”, i bourgeois-bohème, o radical-chic, ancora non hanno avviato massicce ristrutturazioni immobiliari e dove è più difficile comprare una cartolina che una stecca di sigarette di contrabbando. O altri tipi di fumo.
Metrò Barbès-Rochechouart: si esce dalla stazione ed è già Algeri. Gli uomini, solo uomini, ai tavolini dei caffè. Le donne velate. Le bancarelle di pane arabo e menta fresca. Qualche tuareg del deserto, perfino, con il suo turbante blu. Il vociare della casbah. Che ha ormai preso Joséphine sotto la sua protezione.
Mai un furto, mai un tentativo di scasso, mai una minaccia alla porta del salone: «Sanno tutti che siamo qui per loro, per le loro donne», non si meraviglia Lucia. «E non a caso. Volevo andare al cuore dei problemi, nel quartiere più povero, multietnico e tumultuoso di Parigi, un luogo dove poter creare un’oasi di pace».
Ogni lunedì mattina, Lucia attraversa la Senna e raggiunge la sua isoletta di serenità nella metropoli che l’adottò, molti anni fa.
«Forse perché sono siciliana, ho dentro questa voglia di aiutare le donne», spiega Lucia, che ha lasciato Canicattì a 15 anni per venire a Parigi, a cercare la famiglia emigrata e, in particolare, la sorella Giuseppina, con la quale aveva condiviso l’infanzia in un istituto religioso di Licata, dopo la morte del padre. Non conosceva una parola di francese, Lucia, all’epoca. «Sono cittadina del mondo e immigrata per scelta», racconta controvoglia la sua storia di personale sopravvivenza. «Fin da bambina, avevo scelto di essere un clown. Ridere e divertirmi. Rimandare i pensieri tristi al giorno dopo. E studiare poco».
Giuseppina, più seria e più grande di un paio d’anni, era già diventata Joséphine e cercava di trasmettere all’irrequieta sorellina i rudimenti del suo lavoro di apprendista parrucchiera. «Proprio a me! A me che non era mai piaciuto giocare con le bambole. Mi incantarono subito, però, l’ambiente, gli odori, l’atmosfera allegra. Questo sì. E, in più, imparavo il francese».
Anche il francese. Ma innanzitutto un mestiere; e i terapeutici effetti della complicità femminile che sanno creare un piumino da cipria e un asciugacapelli.
«Ho trovato degli angeli custodi sul mio cammino, quando non distinguevo il bene dal male», ammette Lucia. «Grazie a loro non mi sono persa». Adesso no, non si tratta di restituire i benefici ricevuti allora: «Perché chi dà con il cuore non si aspetta nulla in cambio». Ma quando era all’apice del suo successo, una dozzina d’anni fa, già coiffeuse prediletta dai grandi fotografi e dai grandi stilisti sui set dei servizi di moda, poi titolare di un esclusivo salone in rue du Vieux Colombier, nel quartiere di Saint-Germain-des-Prés, Lucia ha cominciato a coltivare un insopprimibile istinto di solidarietà. Voleva offrire a donne che la vita non aveva risparmiato gli stessi trattamenti estetici che potevano permettersi le belle signore della Rive Gauche. Gli stessi per qualità, prodotti, sapiente esecuzione. «Lo scopo non è di assicurare un taglio gratuito. Quello si può trovare anche nelle scuole per parrucchieri. Riscoprirsi belle serve a rialzare la testa, a riacquistare fiducia in se stesse, a tornare a lottare».
Modelle per un giorno. Al lunedì, giorno di chiusura del suo salone, Lucia prendeva la valigetta professionale utilizzata nel backstage delle sfilate di Jean Paul Gaultier, Christian Dior, Yves Saint-Laurent, e si avventurava nella periferia parigina per prestare il suo talento a oscure modelle di coraggio e resistenza. Poi decise di invitarle nel suo elegante negozio di Saint-Germain, sempre di lunedì. Ma neppure quell’accomodamento la convinceva del tutto: «Pensavo fosse giusto farle venire in un quartiere carino», racconta. «Credo tuttora che, quando si offre un aiuto, non debba essere un aiuto mediocre. Un prodotto scadente, un abito usato. Non sono i mezzi economici a determinare il buon gusto. Chiunque sa apprezzare qualcosa di bello, anche se non può comprarselo».
Tuttavia non basta una corsa in metrò a colmare le distanze. Così è Lucia, una volta la settimana, a cambiare quartiere. Un gruppo di mecenati la spalleggia: aziende del settore, come L’Oréal o Gemey, o di abbigliamento, come Kookaï e Carrol, ma anche imprese private o compagnie di assicurazioni che non si aspettano alcun ritorno materiale dal loro investimento. L’ufficio comunale del XVIII ha trovato i locali. Il resto è nelle mani di Lucia: per il suo salone di Barbès ha scelto un monumentale divano di velluto verde, simile a quello, color rubino, installato a Saint-Germain. Una decoratrice d’interni, Olivia Montrobert, si è incaricata di suddividere gli spazi: un grande angolo per i lava-testa, la cabina d’estetica, la stanza dei vestiti e delle scarpe offerti in prestito, l’ufficio della coordinatrice Koura Keita, che filtra gli appuntamenti e incontra le clienti per un primo colloquio orientativo. Clienti, non assistite. La tariffa è di 3 euro a seduta: «L’importante», chiarisce Lucia, «è che sentano di essersi offerte i loro trattamenti». Che non si limitano al trucco e alla messa in piega. Una consulente d’immagine, Charlotte Rosier, suggerisce la mise giusta per un colloquio di lavoro o una serata speciale. Avvocati, esperti finanziari, ginecologhe sono a disposizione per pareri, suggerimenti, controlli.
Tutta la stampa francese ne parla: non esiste niente di simile, e già Lucia apre una succursale a Tours. Un solo rimpianto: Giuseppina non c’è più, a condividere quel sogno realizzato, è morta due anni prima di cancro. Ma il suo nome campeggia sull’insegna.
In un anno e mezzo, oltre duemila donne sono passate dal Salone Joséphine, sebbene alcune si siano fermate prima di entrare o di sedersi davanti a Koura. Le hanno fermate un marito geloso, un’ultima violenza o il timore di non meritarsi quel piccolo atto d’amore verso se stesse. Per ricredersi dovrebbero vedere il volto e la chioma di Ibtissam, in arabo “Sorriso”, 35enne algerina, appena uscita dalle abili mani del parrucchiere e truccatore che affianca Lucia: «È la terza volta che vengo qui. Domani mattina ho un appuntamento importante. Dal giudice. Finalmente ce l’ho fatta: divorzio. Ricomincio a vivere».
Elisabetta Rosaspina