Francesca Pini, Sette 26/10/2012, 26 ottobre 2012
IL TESORO DEL 900 TROVA CASA IN UN CAVEAU
Nel cuore di ogni grande banca pulsa il caveau, per custodire i valori. Ma ora in questa sontuosa “camera blindata” che si apre nei sotterranei di palazzo Beltrami a Milano in piazza Scala, gli armadi e le cassette di sicurezza (dove fino a due anni fa era ancora possibile depositare beni preziosi) hanno lasciato il posto alle “rastrelliere” per la conservazione e la movimentazione dei dipinti, come in ogni museo. La diversa destinazione d’uso di questo ambiente, e di tutto l’edificio (un tempo sede della Banca Commerciale Italiana che nel 1906 commissionò il progetto a Luca Beltrami, il quale adottò soluzioni costruttive eclettiche) coincide con la scelta culturale di Intesa Sanpaolo di valorizzare le proprie collezioni d’arte confluite in seguito alle 250 fusioni dei vari istituti di credito italiani (per un totale di 17mila opere tra dipinti e sculture, reperti archeologici, monete, icone russe). Descrivere l’albero genealogico delle fusioni societarie è impresa complessa, come altrettanto difficile e laboriosa è stata la catalogazione di tutte le opere pervenute, che ha richiesto parecchi anni di lavoro (all’interno di Intesa Sanpaolo è stato inoltre creato un apposito dipartimento beni culturali, composto da una ventina di esperti). Dalla consistenza di questo patrimonio, e dalla selezione di specifici corpus di opere, sono nate le Gallerie di Piazza Scala, che in quattro diversi palazzi (interconnessi tra loro secondo un esemplare progetto di risistemazione concepito dall’architetto Michele De Lucchi) ospitano le raccolte di opere d’arte dell’800 e del 900 italiano. «La principale difficoltà è stata proprio quella di “mettere in relazione” tra loro i diversi edifici (il settecentesco Palazzo Anguissola, l’altro corpo affacciato su via Manzoni, opera del Canonica nel 1829, che edificò poi anche Palazzo Brentani, e infine la costruzione opera del Beltrami) così da creare un percorso in continuità. Realizzandolo ci siamo accorti che non era solamente un’operazione architettonica, ma così facendo stavamo ritracciando anche l’evoluzione della società milanese», dice De Lucchi. «La nobile famiglia Anguissola, che vendette la propria dimora, splendidamente decorata, al ricco borghese avvocato Antona Traversi segna un avvicendamento tra due classi, fino a un successivo stadio con il progetto di un nuovo edificio in piazza Scala per la Banca Commerciale Italiana di Raffaele Mattioli, alla quale si rivolgevano gli imprenditori. Ora, in questo complesso, sono riuniti tutti gli elementi dell’architettura, della storia della società e dell’arte di due secoli, dall’800 realista al 900 sperimentale». Oggi, con l’inaugurazione delle sale del Novecento (quelle dell’Ottocento aprirono già l’anno scorso), in cui spiccano dipinti e sculture degli artisti e delle correnti più rappresentative dal 1950 al 1980/90, si arriva a seguire, per capitoli, le tappe dello sviluppo dello stato dell’arte. Che non è quello solo dei nomi altisonanti (Burri, Fontana, Manzoni, Schifano sono più che rappresentati), ma veramente di tutti quei protagonisti, anche non primari, che hanno però animato Triennali, Quadriennali, e naturalmente anche Biennali di Venezia. Ogni dipinto raccoglie in sé una storia, come quella tela Omaggio a Machado che Vedova dipinse nel 1959-60, influenzato dalla poetica esistenzialista dell’autore spagnolo, che celebrava lo scorrere malinconico del tempo fino al sopraggiungere della morte. «All’inizio ero spaventato all’idea di mettere l’arte in uno spazio così aulico e autoritario come quello degli ex saloni della banca», dice De Lucchi. «Ma, invece, proprio questi si sono rivelati quasi delle corti porticate, com’erano le antiche case romane con i loro impluvium». L’effetto è quello, ma al posto di un fauno danzante, nell’ottagono del salone principale, sotto il soffitto di vetro in stile Liberty, c’è la forte presenza della scultura in ferrocemento di Mauro Staccioli.
Nel Sancta Santorum, Fontana. La ricchezza di prospettive artistiche di cui il 900 italiano (dal dopoguerra a oggi) si è nutrito è ben visibile nella collezione di Intesa Sanpaolo (che vanta tremila opere di quel periodo). Il curatore Francesco Tedeschi ha scelto di esporne 189, rappresentative dei maggiori artisti italiani, che hanno animato o ancora animano il panorama nazionale e non solo: da Carla Accardi a Boetti, a Carol Rama, Guttuso, Afro, Ceroli, Magnelli, Castellani, Agnetti, Pinot Gallizio, Rotella, Spalletti, Kounellis, Paladino. Nomi che indicano pagine scritte nella storia di quarant’anni di arte, qui dispiegate nelle dodici sezioni dell’allestimento che rimandano ai principali movimenti. Dallo Spazialismo all’Arte nucleare, alla Poesia visiva, al Movimento Arte Concreta, all’Informale, all’Arte Programmata e Cinetica (il Gruppo T a Milano e il Gruppo N a Padova), all’Arte Povera, alla Transavanguardia. Da questa visione d’insieme, che invita poi anche alla “esplorazione” del singolo autore (in mostra ne troviamo 153), nasce anche lo stimolante raffronto con quanto avveniva negli stessi anni nelle principali correnti europee e americane. Nel 1960 anche da noi si sviluppa un concetto di Pop Art, che trova eco evidente in quel dipinto del 1967 di Tano Festa (fresco di un soggiorno a New York l’anno prima), il quale attinge a una figura di Michelangelo (l’Alba, la celebre allegoria che veglia sulla tomba di Lorenzo De Medici) per generare una nuova icona, duplicandone il volto, elevandola a star (nel segno di un certo warholismo). Non dissimile è il processo che porta, invece, Giosetta Fioroni a rielaborare la nascita di Venere del Botticelli secondo un nuovo canone estetico “seriale”. La storia della pittura e della scultura è anche storia delle tecniche e dei materiali che ciascun artista ha usato per affinare il proprio linguaggio espressivo: per Burri la sabbia, la iuta, il legno e il fuoco; per Gianni Colombo l’elastico; per Boriani la polvere di ferro attirata dalla calamita; per Alberto Biasi le sottili lamelle di pvc; per Baj tessuti, bottoni e medaglie; l’acciaio specchiante per Pistoletto. La nostra visita converge però verso quella scultura ovoide, di metallo rosso, con taglio mediano, di Fontana, di cui troviamo qui esposti altri otto Concetti Spaziali, realizzati tra il 1951 e il 1967. In questa stanza, sorta di Sancta Sanctorum, ha il posto d’onore quella Luna a Venezia del 1961, una delle 22 opere del celebre ciclo realizzato dall’artista. Sulla tela nera, il bagliore è un nastro argentato che racchiude gemme di vetro, oltre a una tipica perla veneziana, l’occhio sensibile di quella superficie.
La mostra punta anche su due focus monografici; nel primo viene approfondito il colore come forma plastica attraverso l’astrazione. «Che assorbe una tradizione di cromatismo e di spazio, recuperando anche la lezione di Kandinskij e di Matisse che ha lasciato delle tracce non evidenti, che però emergono in artisti come Accardi, Turcato e Dorazio», dice Francesco Tedeschi, curatore dell’allestimento del corpus della raccolta del 900. Il secondo approfondimento verte su quell’installazione del 1986 di Emilio Isgrò, ispirata alla strage di Bologna del 1980 (di cui il maestro ci parla qui sopra). «Con questo intervento artistico che si collega a una dimensione di valore civico, Emilio Isgrò fa ripartire la storia dopo una tragedia, e anche nel testo poetico che scrisse si evidenzia come l’arte può rispondere a momenti che sembrano senza speranza», dice Francesco Tedeschi. «È importante che emerga il senso di pluralità e diversificazione dei percorsi dell’arte in Italia, con un’attenzione per quelle figure più ricercate e a volte primarie ma che hanno realizzato opere che servono a definire delle tendenze, per esempio sottolinenando la presenza di Remo Bianco e Scialoja accanto a Manzoni e Castellani. Un grande ricco panorama di stili, di personalità, di invenzioni che si conferma nella nostra proposta, in linea con quella delle principali collezioni museali italiane. La forza creativa che l’arte italiana ha avuto nel 900 non è mai stata secondaria, ed è giusto che venga valorizzata non con sciovinismo, non con posizioni nazionalistiche: allora come oggi la nostra arte si è distinta e sviluppata all’interno di un contesto internazionale, che ha sempre saputo accogliere l’originalià dei singoli artisti e di certe prese di posizione anche nei confronti delle dinamiche maggiori che definivano la grande arte del XX secolo».
Francesca Pini