Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

NOI DUE, MOSTRI DA SBATTERE IN GALERA


La strana coppia. «Attenti a quei due», corregge Dario Mora, che di serial tv se ne intende. Uno è lui, l’ex Lele da Bagnolo di Po (Rovigo), 57 anni, ora solo Gabriele, il secondo nome di battesimo con cui sua madre lo chiamava da bambino: 4 anni e 3 mesi patteggiati per bancarotta fraudolenta, ancora imputato per sfruttamento della prostituzione nel processo Ruby. L’altro è Alfonso Papa, 42 anni, magistrato napoletano in aspettativa, deputato del Pdl coinvolto nell’inchiesta sulla cosiddetta P4 che avrebbe fatto capo a Luigi Bisignani ma per la quale, secondo la Cassazione, non esiste prova che fosse un’associazione a delinquere. Li ha uniti il carcere: 408 giorni in isolamento a Opera il primo; 102 giorni a Poggioreale e altri 53 agli arresti domiciliari il secondo. Per entrambi un’esperienza talmente devastante da indurli a giurare che dedicheranno il resto della loro vita ai detenuti.
Dimenticare è impossibile, anche perché non passa giorno senza qualche nuova stilettata giudiziaria. Il 16 ottobre i giornali hanno scritto che Papa è indagato anche per l’uso indebito dell’auto blu. «Pago il protagonismo del mio inquisitore, il pm Henry John Woodcock» commenta il parlamentare. Dagospia ha spifferato che una società del gruppo Ubi banca è stata costretta a svendere per soli 60.962 euro il Cessna da 9 posti con la sigla LM sulla coda, valore 1,8 milioni di dollari, che Lele Mora aveva acquistato in leasing «per scarrozzare, comodi comodi, starlette e tronisti» e rimasto abbandonato per insolvenza, «dopo poche rate», sulla pista di Linate. «Da non credere. Ho tenuto quell’aereo dal 2000 al 2006 e l’ho pagato quasi per intero» sospira l’ex impresario.
Delle manie di grandezza che hanno rovinato Mora porto qualche responsabilità. «Lei fu il primo a intervistarmi su un settimanale nazionale, ricorda?». Ricordo: 2 novembre 1989, data infausta per la pubblicazione di un memoriale esclusivo. Allora faceva il parrucchiere a Verona, ma aveva già il pallino delle pubbliche relazioni. Gli feci vuotare il sacco sul processo per la cocaina dei vip, che gli sarebbe costato una condanna per spaccio. Storia da copertina: la foto lo ritraeva con un braccio sulla spalla dell’amico Diego Armando Maradona. Prosciolta Patty Pravo: la droga era per uso personale. Nelle intercettazioni, la cantante telefonava dalla casa di Mora, che all’epoca abitava a Madonna di Prabiano, frazione di Villafranca.
L’intraprendente pierre venne ad aprirmi a piedi scalzi, gli occhi pesti di chi aveva fatto le ore piccole, slalomeggiando su un tappeto di stoviglie unte e bottiglie vuote. I bagordi della sera prima dovevano avere coinvolto una trentina di commensali. Aroma d’incenso: «Mi piace sentire odore di chiesa». Sul camino una statua della Vergine. Nel suo villino senza pretese Mora ospitava anche Loredana Bertè appena sposata con il tennista Björn Borg; il figlio di Alain Delon, Anthony; Pierre Cosso, il protagonista del Tempo delle mele; Clayton Norcross, il bel Thorne di Beautiful. La sexy girl Giannina Facio aveva addirittura eletto il proprio domicilio fiscale presso il buen retiro dell’amico Lele. Insieme andavano in pellegrinaggio nei santuari mariani del Veneto. «Resto molto legato a quello della Madonna del Pilastrello di Lendinara, vicino a dove sono nato. Ci sono tornato appena mi hanno scarcerato».
Com’è che tutti i detenuti famosi, incluso Pietro Maso, in prigione si convertono? In cella lei leggeva la Bibbia e Giampaolo Pansa; il suo amico Papa la Bibbia e Goethe.
Mora La Bibbia l’ho sempre avuta fra le mani. Prima, durante e dopo. L’avrò riletta cento volte. Sono cattolico, anche se perdo qualche messa festiva. Fosse dipeso da me, sarei corso a ringraziare la Madonna a Fatima o a Medjugorje, ma ho il divieto di espatrio. Mi spiace, perché tutti gli anni accompagnavo i malati a Lourdes.
Papa «Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito». Salmo 34. Come luogo di sofferenza, il carcere ha pochissimi equivalenti.
Francesco Merlo l’ha irrisa su «Repubblica» perché era andato a messa prima dell’arresto, l’ha definita un «traffichino ordinario» che indossa «la maschera estrema, quella del penitente».
P. Merlo appartiene alla stessa categoria di quel fotoreporter che m’inseguì per due giorni pur di rubare le immagini mentre facevo la comunione in chiesa prima di costituirmi. Il fotografo poi mi ha chiesto scusa. Merlo no. È Merlo.
Anche Paolo Cirino Pomicino, sul «Fatto quotidiano», non è stato tenero: «Nel 2008, Letta, Previti e Bisignani candidarono al mio posto il noto statista Alfonso Papa, ora in piena deriva mistica».
P. Il valore che Cirino Pomicino assegna alla politica è personificato dall’ex onorevole Alfredo Vito, detto «mister centomila preferenze». Il quale sarà uno dei testi d’accusa al mio processo scelti da Woodcock, nonostante il nostro unico contatto risalga ai tempi di Tangentopoli, quando, da giovane uditore, accompagnai il pm che doveva interrogare questo deputato dc della corrente pomiciniana regnante a Napoli. Ma capisco che, in tempi di rottamazione, giovani virgulti come Cirino Pomicino e Vito, 73 e 66 anni, ambiscano a tornare in Parlamento.
In che modo s’è formata la strana coppia Mora-Papa?
M. Venne lui a trovarmi in carcere.
P. Lo scorso 3 gennaio. Ero tornato un uomo libero da 12 giorni. Mora usciva da un tentativo di suicidio sul quale i giornali ricamavano con volgari insinuazioni. Fu lui a dare coraggio a me.
M. Alle 12, durante il cambio della guardia, avevo staccato alcuni pezzi di cerotto che tenevano insieme l’abat-jour della cella e me li ero applicati su naso e bocca. Altri strumenti per ammazzarmi non ne avevo. Poi non ricordo più nulla. Mi svegliai in infermeria alle 18.
Vi battete perché tutto questo non abbia a ripetersi.
P. L’ho preso come un impegno 24 ore su 24. Ho trovato più rispetto in galera che a Montecitorio. Mi hanno scarcerato il 23 dicembre e il giorno dopo, vigilia di Natale, ero di nuovo a Poggioreale a confortare i miei ex compagni di sventura. Ora visito un penitenziario ogni due settimane. Ho costituito il Comitato per la prepotente urgenza, che prende il nome dalla frase del presidente Giorgio Napolitano sulla necessità di un’amnistia. Con Mora pensiamo a una fondazione di laici e cattolici.
M. Sto aiutando la cooperativa La Madre Terra, fondata 25 anni fa da don Oreste Benzi, a trovare uno sbocco nella grande distribuzione. Vorrei che in ogni Esselunga e in ogni Coop vi fosse L’Angolo del detenuto, un corner con le merci prodotte dagli «scarti» della società. Per i rifiuti veri attendo che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mi autorizzi alla raccolta differenziata nelle prigioni. Ho già trovato un’azienda di Napoli disposta a occuparsene. E infine mi batto per l’ortoterapia, che a me ha salvato la vita.
Sarebbe?
M. Insegnare ai detenuti come si coltiva la terra. A Opera mi fu concesso di trasformare una discarica in orto. Le sementi me le spedivano per posta i miei figli. Siccome non potevo avere il concime dall’esterno, chiesi l’autorizzazione a tenere 20 quaglie in gabbia. Mi arrangiavo con le loro deiezioni. Rifornivo gratis di pomodori, melanzane, peperoni e zucchine tutte le celle.
Mi risulta che stia scrivendo un libro. Prefazione di Vittorio Feltri.
M. E lei come lo sa? È vero, uscirà a dicembre, s’intitolerà I miei angeli custodi: gli agenti di sorveglianza che mi guardavano a vista, giorno e notte. Sono loro i veri reclusi. Si chiamano l’un l’altro «collega», ma io alla fine ero riuscito a farmi dire i nomi: Marco, Umberto, Salvatore... E poi ho dettato a Platinette un libro di memorie, Chi pagherà la Mora. Devo all’Agenzia delle entrate 5,8 milioni di euro. Avevo presentato un piano di pagamenti rateali. I pm hanno preferito sbattermi dentro.
Pensa di vangare l’orto per il resto dei suoi giorni nella comunità Exodus di don Antonio Mazzi?
M. Intanto ci vado il mercoledì e il giovedì. Sono in affido da lui per motivi di salute, ha celebrato i 60 anni di nozze dei miei genitori. Il mestiere che facevo prima mi piaceva. Oggi mi guardo attorno e vedo il nulla. Quando tutto sarà finito vorrei riprovarci, stavolta stando dietro le quinte. E senza nani e ballerine intorno.
E lei, onorevole Papa, spera in una ricandidatura alla Camera?
P. Sì, mi piacerebbe completare l’iter della mia proposta di legge che limita il ricorso alla carcerazione preventiva ai reati di sangue, terrorismo e mafia fino a un massimo di 6 mesi. L’Italia è l’unico paese al mondo dove arriva a 6 anni. Nel Mali vige la sharia, ma non possono tenerti in prigione per più di 90 giorni senza processo, perché la legge coranica riconosce che quando un innocente è accusato di furto ha diritto di sapere in tempi ragionevoli se gli verrà amputata una mano o no.
A Montecitorio, con la sharia, sareste in buona parte monchi.
P. Hanno firmato 300 deputati, la metà del Parlamento. La proposta di legge giace da mesi in commissione Giustizia. I politici se ne infischiano, i giornali si occupano solo di gossip giudiziario. In Italia 42 detenuti su 100 sono in attesa di giudizio e la metà di loro verrà assolta in primo grado. Pezzi di vita rubati, risarciti dopo anni e anni con 80 euro per ogni giorno di ingiusta detenzione. Nessuna responsabilità civile per il magistrato che sbaglia. Io penso che il garantismo sia una cultura, non un’opportunità, e che i diritti violati rappresentino la peggiore umiliazione del concetto stesso di civiltà.
Chi terreste in prigione? E per quanti anni al massimo?
M. L’ergastolo mai. Punirei con 25 anni solo l’omicidio premeditato.
Ma lei non era un uomo d’ordine, con «Faccetta nera» come suoneria del telefonino?
M. Sono stato educato da genitori mussoliniani, non fascisti.
Mi sfugge la differenza.
M. Benito Mussolini era socialista.
P. Chi vive l’esperienza detentiva diventa recidivo nell’80 per cento dei casi. Il carcere è una realtà criminogena in sé. Insieme con i 9 milioni di procedimenti giudiziari pendenti, ci costa 2 punti di pil all’anno. Meglio l’affidamento in prova ai servizi sociali e il controllo a distanza con il braccialetto elettronico.
Lei vorrebbe anche che i detenuti in attesa di giudizio fossero separati da quelli condannati in via definitiva. Una bella pretesa.
P. Accade in tutte le nazioni civili. Lo sa che in Norvegia ci sono le liste d’attesa per il carcere? Se non c’è posto, hai diritto agli arresti domiciliari. Quando io stavo a Poggioreale, in Italia ce n’erano altri 67.427 come me ammassati in 206 penitenziari che al massimo avrebbero dovuto contenere 45.816 persone. Mezzi maiali e mezze salme. Nei porcili sono garantiti 3 metri quadrati a ciascun animale e nei cimiteri le salme vengono sepolte a 1 metro di distanza l’una dall’altra. Noi eravamo in cinque dentro una cella di 25 metri quadrati.
Quanti chili ha perso? P.
Pesavo 108, adesso sono 75.
M. Io 50 esatti, da 118 a 68. Sono fuori da due mesi e mezzo e ancora devo curarmi per la depressione.
Beppe Grillo ha detto ad Aldo Cazzullo del «Corriere della sera» che la galera per voi è stata «una beauty farm a nostre spese».
P. Questo spiega perché Mora è un mussoliniano e Grillo solo un fascista.
M. La consiglio anche a lui, grasso com’è.
Parliamo di questa «beauty farm».
M. Per 13 mesi da solo in un loculo di cemento armato, con oltre 40 gradi d’estate, senza nemmeno un ventilatore. Non avendo il fornelletto per cucinare, dovevo mangiare tonno Rio Mare in buste. Frutta e verdura refrigerate nel lavandino in cui mi lavavo. Ma il peggio è stato l’inverno: la finestra con le doppie sbarre era priva di vetri, perché avrei potuto utilizzarli per atti autolesionistici. Temperature vicine allo zero. C’è voluto un certificato dello psichiatra per ottenere un piumone.
Che cosa ricordate del vostro primo giorno di detenzione?
M. Niente, mi si appannò la vista.
P. Gli occhi che nel buio mi osservavano dagli spioncini delle porte blindate. Erano le 4 del mattino quando entrai a Poggioreale. I detenuti avevano seguito in diretta alla tv il voto della Camera sul mio arresto. Dalla feritoia uno di loro mi offrì un piatto di spaghetti alla carbonara. Aspettai l’alba fissando sul soffitto una grande macchia marrone con tanti spruzzi intorno: una tazza di caffè scagliata lassù da un recluso prima di tentare il suicidio.
La Cassazione ha poi annullato l’ordinanza di arresto, dichiarando l’insussistenza dei presupposti per la custodia cautelare. S’è fatto un’idea del perché i suoi ex colleghi della Procura di Napoli l’abbiano privata ingiustamente della libertà?
P. All’esordio in magistratura il pm Henry John Woodcock fu mio uditore. Confesso d’averne addestrati di migliori. In quel periodo svolgevo indagini sul terrorismo che richiedevano la massima riservatezza. Ebbi ragioni per chiedere l’interruzione dell’uditorato di Woodcock, il quale pertanto proseguì il suo tirocinio con il pm Arcibaldo Miller. Ritengo che oggi sia mosso da motivazioni personali nei miei confronti.
Tornerebbe a fare il magistrato?
P. Sì. Ero attento alle garanzie degli imputati. Nel mio decennio da pm chiesi la custodia cautelare solo quattro volte e per fatti di sangue. Aveva ragione Leonardo Sciascia nel sostenere che i magistrati dovrebbero trascorrere qualche giorno in prigione, durante l’uditorato, per rendersi conto di quant’è delicata la loro funzione.
Si spolmona per fare approvare l’amnistia, insieme con i radicali, che tuttavia votarono per la sua detenzione.
P. Mi hanno deluso. Però Marco Pannella mi è sempre stato vicino, al pari di Silvio Berlusconi: i primi a volermi incontrare dopo la scarcerazione. Al mio arresto concorse la Lega, che pure governava con il Pdl. Un mero calcolo politico dell’allora ministro Roberto Maroni. Mi disse: «Non ho letto le carte che ti riguardano, ma ordinerò lo stesso ai miei di votare a favore del tuo arresto per dare un segnale al Paese». Oggi, alla luce delle indagini di Woodcock su Umberto Bossi, ma anche sulla Finmeccanica e sul suo presidente Giuseppe Orsi, amico di Maroni, comincio a comprendere il perché e il percome del voto contro di me. Senza questa scorciatoia sarebbe occorso un congresso per impossessarsi della Lega.
Mora, dei tanti personaggi che ha lanciato, quali le sono rimasti vicini?
M. Pochi. Iva Zanicchi, anche se non ha mai fatto parte della mia scuderia, Platinette, Sabrina Ferilli, Ornella Muti, Rosanna Mani, Tessa Gelisio.
Fabrizio Corona e Belén Rodríguez no?
M. Solo un telegramma. Corona non lo sento dal 2009 né m’interessa sentirlo. Dopo che Belén l’ha mollato, lei però l’ho rivista. È incinta e felice.
Chi vi ha deluso di più?
M. Alfonso Signorini. Non s’è mai fatto vivo.
P. Devo essere sincero? Woodcock. Pur conoscendolo bene, non mi aspettavo che potesse scendere così in basso.
Quanto vi sono costate, in termini economici, le vostre disavventure giudiziarie?
P. Tutti i risparmi che avevo in banca: 100 mila euro.
M. Trent’anni di lavoro. Sono fallito per Vallettopoli, c’è stato il fuggifuggi dei divi. Il proscioglimento è arrivato troppo tardi. E chi era il pm di quella caccia alle streghe? Woodcock, quando si dice il caso. Dopodiché non sono un santo neppure io, eh.
Il suo amico Berlusconi le aveva dato 3 milioni di euro, senza interessi, per rimettersi in sesto.
M. Spero un giorno di riuscire a renderglieli. Però la metà di quei soldi ho dovuto girarla a Emilio Fede.
Fede nega, dice che lei gli ha solo restituito un vecchio prestito.
M. Fede dica quello che vuole. Io dico quello che è vero. Che cosa ricordate del vostro primo giorno fuori dal carcere?
M. Il cielo azzurro.
P. Il cielo. (Si commuove).
Avete paura di doverci tornare?
P. Sì.
M. Sì. Più della morte.
Per cui quale consiglio dareste a un cittadino che non voglia passare i vostri stessi guai?
P. Di non suscitare l’invidia di persone che si chiamino Henry John Woodcock.
M. Di cambiare paese.
(stefano.lorenzetto@mondadori.it)