Gian Arturo Ferrari, Corriere della Sera 26/10/2012, 26 ottobre 2012
NON ESISTE SOLO LA RESPONSABILITA’ PENALE
Il principio socratico «Nemo sua sponte peccat» (Nessuno fa il male deliberatamente) asserisce in parole povere che c’è da aver più paura degli stupidi che dei malvagi. Detto con più eleganza, è un principio illuminista secondo cui il male è il buio dell’ignoranza, che appunto i lumi si incaricheranno di schiarire. Un’idea opposta a quella cristiana secondo cui il male, penetrato nell’uomo con il peccato originale, viene dall’uomo, per debolezza o per protervia, deliberatamente perseguito. Da un punto di vista filosofico, la posizione su questo dilemma determina la valutazione che si dà della sentenza sul terremoto dell’Aquila. E in questo caso sembra proprio che il principio illuminista sia il più plausibile.
Mentre infatti suona inverosimile che quell’elevato consesso di accademici e alti funzionari abbia deliberatamente ingannato i cittadini dell’Aquila, risulta di palmare evidenza che si trattava di un’accolita di incompetenti, provvisti però di una robusta dose di arroganza. Accresciuta adesso, l’arroganza, dalla asserzione burbanzosa che i fenomeni naturali sono imprevedibili. (Anche noi ne avevamo avuto qualche sentore, guardando il meteo... E, peraltro, se così stanno le cose, a che pro mantenere altisonanti commissioni e non sostituirle con un lanciatore di moneta che, testa o croce, ci illumini sul futuro?). Altra faccenda è la sanzione penale comminata ai chiarissimi incapaci, la quale sembra più che altro riecheggiare la memorabile invettiva di Giorgio Bracardi «In galera!». Ma che ha la sua radice in un fenomeno solamente nostro, italianissimo, e cioè la riduzione di ogni forma di responsabilità a quella penale. È scomparsa infatti la nozione di responsabilità politica, specie per quanto riguarda la corruzione e i rapporti con la criminalità organizzata. Dovrebbe essere evidente che oltre a quelle individuali vi sono qui responsabilità collettive, cioè politiche, ma queste ultime, non essendo sanzionate da chi le dovrebbe sanzionare, cioè dagli elettori e dal pubblico disprezzo finiscono per dissolversi.
Sorte analoga è capitata alle responsabilità etiche, anche nella versione molto ridotta che attiene ai comportamenti quotidiani, alle nozioni di decoro e di decenza, forse piccolo borghesi, ma proprie delle forme evolute di civile convivenza. Tranne rari casi (le dimissioni del sottosegretario Malinconico ne sono state un lodevole esempio) non sono neppure avvertite come responsabilità o vengono attribuite a una sfera privata, pressoché inesistente nel caso di figure per definizione pubbliche. Vi sono infine responsabilità specificamente professionali, gestionali, tecniche, non essendo a priori da escludere che persone specchiate e incensurabili risultino poi alla prova dei fatti dei perfetti incapaci. L’opacità raggiunge qui il massimo, in parte per difesa corporativa, in parte per sudditanza dell’informazione. Sta di fatto che non si sa mai chi siano i responsabili delle inefficienze, delle trascuratezze, degli sprechi e di tutti i disastri tutti i giorni sotto gli occhi di tutti. Questa atrofia nazionale del senso di responsabilità e delle relative sanzioni ha finito per caricare la responsabilità penale — un caso estremo — di pesi impropri. Le è stato chiesto di vicariare tutte le altre forme di responsabilità, ma con il vincolo delle garanzie necessarie quando è in gioco la libertà dei cittadini. Con il conseguente doppio rischio di forzare le garanzie per affermare una responsabilità forse non penale, ma di sicuro non altrimenti sanzionabile. Ovvero di mantenere le garanzie e negare la responsabilità penale, ma di fatto assolvere da ogni altra forma di responsabilità. Come si vede spesso dalla giocondità degli assolti, che interpretano l’aver schivato la galera come un encomio solenne dei propri comportamenti. Il problema, dunque, non è — o non è solo — la giustizia penale, ma la sensibilità sociale. E le colpe non sono qui dei politici o dei magistrati, ma nostre, di una pubblica opinione poco educata, ancora da dirozzare. In Germania i ministri si dimettono per aver a suo tempo copiato, in tutto o in parte, la propria tesi di laurea. I condannati dell’Aquila avrebbero fatto bene, all’indomani del terremoto, a chiedere pubblicamente scusa per la tragica topica, a dimettersi dalle proprie prestigiose cariche e a togliersi dalla circolazione.
Avrebbero evitato, se non altro moralmente, la condanna.
Gian Arturo Ferrari