Dario Di Vico, Corriere della Sera 26/10/2012, 26 ottobre 2012
QUEL WELFARE CHE COSTA ALLE FAMIGLIE 22 MILIARDI
Le famiglie italiane spendono ogni anno tra i 20 e i 22 miliardi di euro per aiutare i propri membri in difficoltà. Le tipologie di spesa sono le più diverse, si va dall’aiuto economico a fondo perduto (10,1%) alla compagnia a persone sole o malate (15,9%), dal fare la spesa o portare pasti pronti (9,9%) ai prestiti senza interessi (8,2%), dall’assistenza agli anziani (9,8%) a tenere i bambini (17,3%) fino al trasporto di persone bisognose (7,8%). In molti di questi casi la solidarietà familiare scatta per la natura diseguale del reddito tra le generazioni ma più in generale svolge una funzione di supplenza di un sistema di protezione sociale in profonda crisi. Il dato emerge dal progetto «Welfare, Italia» l’indagine annuale promossa dal Censis e dall’Unipol, che punta ad analizzare strumenti e strategie che le famiglie italiane adottano per fronteggiare il presente e attrezzarsi per il futuro. Altrettanto interessante è quanto accade nella spesa sanitaria: cresce la tendenza a pagare direttamente — in gergo si dice out of pocket, prendendo i soldi dalla tasca — una serie di prestazioni. In sostanza gli italiani risparmiano sui beni durevoli facendo slittare la decisione di acquisto ma sulla salute non transigono e infatti la spesa out of pocket cresce del 2,8% l’anno (un’eccezione nel campo dei consumi). Il 78,2% del campione di famiglie indagato da Censis e Unipol ha pagato nel corso dell’ultimo anno per ticket sui farmaci o acquistati a prezzo intero mentre più del 60% ha sostenuto costi per prestazioni di specialistica ambulatoriale. A questi va aggiunto il 38,6% di famiglie che ha sostenuto nell’ultimo anno costi per visite o prestazioni odontoiatriche private.
Commenta Giuseppe Roma, direttore del Censis: «Si tratta di un’autogestione e autoregolazione familiare che in molti casi risulta efficace ma che mostra due grandi criticità: da un lato è destinata a non poter tenere più in futuro quando i redditi dei pensionati saranno sensibilmente più contenuti e dall’altro rimangono fuori da questo meccanismo di ridistribuzione di risorse le famiglie più vulnerabili sotto il profilo socio-economico». Insomma, se il welfare familiare sostitutivo ancor oggi funziona è comunque un modello a termine.
La spesa più onerosa risulta il mantenimento dei figli maggiorenni che non studiano e non lavorano (i Neet), spesa stimata in media attorno a 4 mila euro l’anno e indicata circa dal 7% delle famiglie mentre un valore molto simile viene fuori a proposito del mantenimento dei figli che fanno l’università fuori casa, che costano mediamente 3.865 euro l’anno. Un altro costo diffuso è quello legato all’acquisto di prestazioni assistenziali private (badanti) per parenti non autosufficienti, indicato dal 6,6% delle famiglie e che richiede una spesa di circa 3 mila euro l’anno. Per rimanere nel campo dei costi annui la ricerca segnala come l’out of pocket valga mediamente 1.156 euro l’anno ma sale a 1.829 euro per chi non vuole rinunciare — come pure inizia ad accadere — alle cure odontoiatriche.
Ma se le famiglie intervengono così ampiamente a surrogare il welfare pubblico (pescando dai risparmi) e se nel medio termine questo modello non è protraibile che cosa dobbiamo fare? Negli anni passati la strategia che è andata per la maggiore è stata quella della cosiddetta «seconda gamba», in sostanza si è tentato di mettere in equilibrio il sistema sviluppando pensioni e polizze integrative. Questa strategia però non sembra aver conquistato gli italiani: solo il 20% degli occupati ha aderito alle pensioni integrative e solo il 12,1% degli interpellati da Censis-Unipol possiede uno strumento previdenziale o assicurativo integrativo. Manca l’informazione (nonostante il legislatore abbia puntato molto sulla seconda gamba) ma anche la fiducia verso gli operatori di mercato. «La cultura assicurativa da noi stenta ancora a decollare» commenta Giuseppe De Rita. Poi la crisi ha complicato il quadro, infatti se solo un anno fa prevaleva una specie di preclusione ideologica a integrare il welfare pubblico, oggi scatta un niet perché la spesa aggiuntiva è insostenibile per il budget familiare. In tutte queste decisioni pesa un’incertezza sull’ammontare futuro della propria pensione. Aumenta infatti in modo consistente il numero dei capifamiglia che vorrebbe conoscere l’importo del reddito di cui potrà disporre nella fase di ritiro dal mondo del lavoro.
C’è dunque necessità di sbloccare la situazione prima che la crisi scavi ancor di più nel disagio sociale e mettendo in difficoltà le famiglie mini le reti di protezione. La tesi del Censis è che quei 20-22 miliardi di euro che le famiglie tirano fuori per le cure odontoiatriche, per mantenere gli studi dei figli e assistere gli anziani, sono una spesa disorganizzata e inefficiente. Ci sarebbe molto da guadagnare da una (sua) migliore organizzazione e da economie di scala più favorevoli rispetto all’acquisto in prima persona sul mercato. «Il bisogno sociale è diventato una costellazione e richiede nuove policy» sostiene De Rita. La prima si chiama welfare aziendale, la seconda potrebbe passare per casse mutue territoriali, la terza tramite interventi e accordi con le categorie. Il welfare quindi si autoriforma dal basso «industrializzando» quanto le famiglie già oggi spendono. Non si parte da zero, anzi la straordinaria diffusione degli accordi di welfare aziendale, a partire dall’esperienza pilota di Luxottica alla quale Unipol ha fornito know how e prodotti, indica proprio una nuova strada che magari rinunci alla pedagogia capitalistica dall’alto e crei invece le condizioni di una contrattazione dal basso. Il welfare quindi si ridisegna partendo dalla periferia. Ma il mondo assicurativo è pronto a questa discontinuità? «Il capitalismo collaborativo fa parte del nostro Dna — risponde Carlo Cimbri, amministratore delegato di Unipol — e per rispondere ai nuovi bisogni sociali non abbiamo paura di innovare».
Dario Di Vico