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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

RAGAZZI DI BOTTEGA

C’è un mondo capovolto, tra i blocchi di abete rosso della Val di Fiemme che un tempo diventavano violini Stradivari e oggi si trasformano in pianoforti da concerto per le star del jazz e della classica. Nei capannoni Fazioli di Sacile, a un’ora d’auto da Venezia, è arrivato l’ennesimo bubez, come qui chiamano i ragazzi di bottega. «Da quando è iniziata la crisi, ne prendiamo uno all’anno come apprendista e poi lo assumiamo a tempo indeterminato. E guai a chi prova a portarcelo via» raccontano gli uomini del cavalier Paolo Fazioli — per le referenze chiedere a Herbie Hancock e a Hélène Grimaud. «Qui i giovani li formiamo noi stessi e, dopo, dobbiamo tenerceli stretti. Di addetti al trattamento del legno in zona se ne trovano tanti, ma quasi mai in grado di produrre pezzi unici e senza resa». Un’altra favola arriva da Varese, la racconta Gianni Cleopazzo della Sartoria Vergallo, azienda di terza generazione e con numerosi clienti a Londra nell’alta moda: «Dal 2010, di ragazzi sui vent’anni ne ho assunti quattro. Il primo mi ha cercato lui: è arrivato che ancora frequentava il liceo artistico. Veniva il pomeriggio, poi ha preso la maturità ed è rimasto qui. Gli altri sono una sua compagna di classe e un’amica della compagna. Il quarto ha 22 anni e arriverà il mese prossimo. Certo, non puoi pretendere che sappiano fare tutto da subito. Per questo la formazione la faccio io in azienda. Partiamo da come tenere in mano l’ago, ma è un investimento. Per noi e per loro. Non diventeranno avvocati o filosofi, in compenso i sarti sono richiestissimi». Eccome. In Piemonte, con i fondi europei del progetto Formaper, Adecco ha riaperto da mesi le scuole di cucito e rammendo che la picchiata del tessile a Biella e a Novara aveva chiuso da un pezzo. «La filiera dell’alta moda è a caccia in quelle zone di duecento addetti» spiega Anna Gionfriddo dell’agenzia, che non ha ancora chiuso le selezioni aperte a luglio per ottocento posti da tecnico in settori che vanno dalla manifattura alla chimica fino all’alimentare. Qualche altra decina di opportunità è offerta dall’agenzia Gi Group a giovani che vogliano lavorare nel calzaturiero. Addetti al «finissaggio», alla «chiusura fianchi», allo stampaggio della suola. Vecchie e nuove mansioni che, in punta di piedi, diventano l’alternativa a un posto nei call center.
Da nord a sud, la crisi riporta i giovani a bottega. Respinti dalla grande industria, depressi dal sovraffollamento delle libere professioni, gli under 30 scoprono che l’ultima chance prima di rivolgersi all’estero può venire dai mestieri manuali. Da quel mondo in cui si inizia con in mano ago e filo e uno stipendio da 800 euro per poi cucirsi addosso, con un po’ di fortuna, un futuro nell’alta moda e una retribuzione a tre zeri. La svolta s’era annunciata a marzo, quando le iscrizioni alle scuole superiori per il nuovo anno scolastico avevano segnato — per la prima volta dal 2007 — la ripresa degli istituti tecnici e professionali e il sorpasso di questi sui licei. A settembre, i nuovi iscritti ai primi hanno superato tutti insieme quelli dei secondi, con un boom in Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia. E in tutto il Paese sono anche cresciuti (più 50 mila) gli iscritti ai corsi finanziati dalle regioni. «Quest’esplosione non vuol dire che tra cinque anni ci ritroveremo pieni di nuovi maestri artigiani: il gap formativo delle nostre scuole è noto. Ma è comunque un inizio» dice Alberto Cavalli, il direttore della Fondazione Cologni dei mestieri d’arte che quest’anno ha aumentato da tre a dieci i tirocini finanziati per giovani diplomati presso aziende dell’eccellenza artigiana. «Fino a qualche anno fa, se chiedevi a un ragazzo quali fossero i mestieri della moda, ti rispondeva stilista o al massimo fotografo. Da un po’, invece, si comincia a pensare a carriere da modellista, maglista, plissettatore..., tutte figure molto ricercate e ben pagate fin dal primo impiego. Il resto lo stanno facendo la crisi e un recupero comunicativo importante delle radici storiche dell’eccellenza artigiana. Anche tra i giovani, inizia a passare il concetto che dietro a un abito o a un orologio glamour ci sono un maestro orologiaio e un sarto, e non solo un marchio. E che la fatica da insetto alla fine ripaga in denaro e prestigio».
Le cifre confermano che l’artigianato tiene botta rispetto alla grande industria. «Qui nel Varesotto fino all’anno scorso chi usciva dalla scuola andava a portare il curriculum alla Whirlpool », racconta l’ingegnere Massimo Bina. Oggi che il colosso degli elettrodomestici ha aperto la cassa integrazione, i ragazzi vengono a bussare alla falegnameria industriale di Bina e alle altre aziende che richiedono manualità e dimestichez-
za con le tecnologie. «Una falegnameria moderna si regge su macchine come quelle a controllo numerico, per le quali un giovane può essere più adatto di un cinquantenne. Questo i ragazzi l’hanno capito e infatti stanno tornando a proporsi». L’artigianato, dunque. Nel primo semestre dell’anno, il settore ha segnato un timido +0,2 per cento. «Ma c’è uno zoccolo duro di imprese, un quarto del settore » spiegano dall’ufficio studi di Confartigianato «che da sole crescono quasi del 2». Sono l’eccellenza italiana dell’Information & comunication tecnology, della green economy, della ristorazione e dell’alimentare, delle produzioni in pelle e, in genere, di tutto quanto ha a che vedere con riparazioni, manutenzioni e macchinari relativi. Altissima qualità, ma non solo: non c’è bisogno di tirare in ballo Fazioli e i suoi pianoforti da 10 mila pezzi e mille ore di lavoro cadauno, per provare il rilancio del settore. A Cava de’ Tirreni, nel Salernitano, la fila dietro alla porta del calzolaio 36enne Catello Landi, specialista in “rimodernatura” di tacchi e punte, può durare giorni, mentre il 20 per cento del fatturato del suo
conterraneo Antonio Dionigi è dovuto alle riparazioni. E dalle riparazioni nel garage sotto casa è partita tredici anni fa, nel Varesotto, Giusy Croce, che oggi confeziona da sola abiti da sposa e da cerimonia. Anche per lei è arrivato il tempo di assumere. «Il lavoro c’è, così ho preso un’apprendista. È una ragazza della zona diplomata al liceo linguistico ma che ha capito che quella non era la sua strada. Era affascinata dalla sartoria, la madre era venuta a chiedermi che cosa potesse studiare per diventare sarta. Le ho segnalato una serie di scuole, ma tutte a Milano e tutte private. Care: così ho pensato che io le avrei potuto insegnare il mestiere. E poi parla inglese, che può tornare utile alle fiere...».
Il ritorno dei ragazzi di bottega ha anche i suoi profeti e i suoi eroi. Stefano Micelli, docente di Economia aziendale a Ca’ Foscari, è autore per Marsilio del pamphlet
Futuro artigiano, che è pure un blog. Il libro raccoglie due anni di visite presso piccoli laboratori e grandi manifatture del made in Italy, accostando glorie del passato ad attività più recenti. «Dappertutto ho trovato orgoglio e passione. Il lavoro artigiano accende l’Italia come pochi altri temi, emerge un mondo tutt’altro che rassegnato e dolente». E alla “rivoluzione delle botteghe” non manca neanche un lato glamour. Così, succede sempre più spesso che a Milano, tra i pezzi unici commissionati dalle grandi aziende per le loro sedi, spuntino le creazioni di Giacomo Moor, classe 1981, formazione in bottega, in proprio da quattro anni e già pluripremiato a fiere e saloni. O che il nome più ricorrente tra gli appassionati di bici sia quello del bresciano Mattia Paganotti, alias Legor Cicli. Ventisei anni, campione dei telai in acciaio («mi fa impazzire l’odore che ti lascia quando lo lavori per ore e ore»), Paganotti lavora grazie a internet soprattutto con l’estero. In Italia, dice, non vede possibilità di «sopravvivenza felice» e «tutto è in salita». Vuoi vedere che dopo la fuga dei cervelli ci toccherà combattere contro quella degli artigiani?