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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

La decisione presa un anno fa dopo l’amaro vertice di Bruxelles - Io sono fra quelli che non si so­no meravigliati

La decisione presa un anno fa dopo l’amaro vertice di Bruxelles - Io sono fra quelli che non si so­no meravigliati. Era sicuro che così fosse: Silvio Berlu­sconi non si ricandida per il go­verno, anche se probabilmente si ricandiderà al Parlamento e chiude la partita convocando le primarie con un ultimo gesto da monarca costituzionale. Questo significa che Berlusconi pone la corona d’alloro sulla testa di Alfa­no nominandolo candidato pri­mo ministro? Su questo non giu­rerei. Le variabili sono ancora molte e non tutte note, inutile gio­care agli indovinelli. Vediamo invece, per quanto è possibile, di trasferirci virtual­mente nella testa di Silvio Berlu­sconi con un programma virtua­le che nel mio caso funziona con un solo strumento: gli occhi. In­contrai per caso Berlusconi la tra­gica sera del suo ritorno da Bru­xelles, quando i leader europei lo ignoravano infliggendogli un’umiliazione amara e stressan­te e lo guardai negli occhi che non erano soltanto quelli di un uomo esausto e frustrato, ma an­che di uno che ha capito che non si gioca più con lo stesso mazzo di carte con cui era cominciata la partita. Aveva visto che il presi­dente della Repubblica lo aveva surclassato prendendo e svilup­pando come un monarca che fa la sua politica estera i contatti con tutti i leader europei e proba­bilmente anche con Obama, bypassando il suo primo mini­stro. La nostra Costituzione non prevede che il presidente del Consiglio sia sostituito dal capo dello Stato, eppure è quel che av­venne a Bruxelles dove Berlusco­ni aveva fiutato l’odore dell’ac­cerchiamento. Mi disse quella se­ra quel che avrebbe poi detto a tutti: «Basta, ho chiuso. Non cor­rerò mai più per il governo, lasce­rò che lo facciano altri. Sono an­che fisicamente stanco e la mia resistenza non è più quella di pri­ma ». Gli chiesi se avrebbe dato un annuncio ufficiale in questo sen­so. Disse che avrebbe dovuto su­perare montagne di resistenze, avrebbe dovuto ascoltare, con­vincere, fare un percorso psicolo­gico oltre che politico, ma il risul­tato finale - disse - sarebbe stato quello: chiusura del suo ciclo sto­rico, largo a chi viene dopo, giova­ne o vecchio che sia. La fine è nota. Il passo indietro, definito anche il passo laterale. La successione soft al governo Monti al quale garantiva anche la maggioranza parlamentare ne­cessaria. Ma era inevitabile che tutti i pezzi del Pdl entrassero in una fase di stress: li teneva insie­me una sola calamita, un unico magnete e quel magnete era Sil­vio Berlusconi. Togli il magnete e tutti i pezzi crollano. La fusione fredda fra tutte le anime della de­stra berlusconiana non era mai avvenuta, se non nel nocciolo du­ro­di Forza Italia con una genera­zione di giovani militanti che si sono sentiti abbandonati dal pa­dre. Con loro soffrono anche tutti coloro che sanno come il loro de­stino e il loro futuro stia tutto e soltanto nelle mani di Berlusco­ni, che ormai tutti chiamano Es­sebì. Ed Essebì si è trovato coin­volto in una nuova stressante tra­versata fra le sue truppe pervase dalla frustrazione, dai rancori re­pressi, dalle nostalgie arrabbia­te, dalla pena del declino. È stato così che ha cominciato a diffon­dersi l’espressione «torniamo a fare politica», sinonimo di «sia­mo orfani, facciamo massa per sopravvivere». Essebì mi è sembrato in questa fase un giocatore solido e molto paziente. Ma nella sua mente penso che non abbia mai tenten­nato. La battaglia da combattere in Europa ha cambiato le regole del gioco e lui è un realista e nelle questioni politiche responsabi­le. Uscito dal governo ha vinto la battaglia dello spread, perché i fatti hanno messo a tacere la vo­ce ridicola secondo cui lui stesso era la causa dello spread, che in­vece ha seguito il suo corso a zig­zag anche se adesso, finalmente, dopo un anno di cure da cavallo, sembra si sia ridotto. Essebì sa che la cura da cavallo si fa basto­nando il cavallo con le tasse e lui non è disponibile per una politi­ca delle tasse contro la quale si è sempre schierato e ancora si schiera. E dunque: subbuglio in casa, ir­ritazione con tutti quelli che han­no preteso di parlare a suo nome e spacciandosi per lui, terreno impraticabile nell’area governa­tiva dove si può tentare di alzare talvolta la voce col governo Mon­ti, ma sempre sapendo che la stra­da è quella e siamo solo all’ini­zio. Due settimane fa l’ho incontra­to di nuovo per una chiacchiera­ta e l’ho trovato stanco ma con le idee chiare. Come se sentisse di aver compiuto quasi per intero la «exit road» che lo avrebbe porta­to fuori dall’ipotesi di una candi­datura a governare. C’era ancora da ascoltare, far sfogare tutti, da­re segnali di vitalità, ma la deci­sione era presa. Mi ha conferma­to che non aveva nessuna inten­zione si tornare sui suoi passi e ha accennato - se ho capito bene - alla possibilità di dar vita a un raggruppamento liberale che tenga alta la bandiera almeno del mito della rivoluzione libera­le che non fu fatta e purtroppo nemmeno tentata. Ha detto che non valeva la pe­na perdere tempo dietro ai sogni di governo: «Non sarà mai possi­bile alcuna riforma radicale se prima non si modificano i poteri del presidente del Consiglio il quale, caso unico al mondo, non ha nemmeno il potere di assume­re o licenziare ministri, essendo sempre sotto la tutela del capo dello Stato». Governare oggi è possibile soltanto se si lavora sot­to la tutela e la guida del Quirina­le: «Non mi consentivano di fare decreti legge, ogni mio atto dove­va­essere supervisionato e appro­vato in precedenza». Le leggi sgradite vengono poi impugnate e portate alla Corte Costituziona­le che le boccia per motivi politi­ci. Aveva l’aria di dire: ci ho provato, ho commesso de­gli errori, ma credo che nes­suno oggi ab­bia gli stru­menti per po­ter fare da solo quel che ho cercato di fare da solo, e dun­que getto la spugna. È però evidente che ha anche vo­glia di restare in pista, non se ne va alle Baha­mas, ma sem­mai a Palazzo Madama. Adesso la partita è aper­ta perché qua­si tutto può succedere e bi­sogna vedere che genere di primarie si pre­parano e che cosa ha in men­te Essebì per il futuro degli al­tri. Dunque, quando ieri è stata diffusa la decisione fina­le, ci siamo tut­ti trovati di fronte a un aspetto della personalità di Essebì che è stata spesso nascosta e po­co valutata: è un uomo che sul piano me­diatico si è mosso spesso in modo sor­prendente e persino spaval­do, almeno in apparenza. Ma la risul­tante di tutti gli aspetti clamorosi del suo carattere è stata zero. Nes­sun predellino, nessuna chiama­ta alle armi, nessun ridotto in cui resistere a oltranza, ma un «libe­ri tutti» che si sta trasformando in un paradossale «tutti liberali». Il grande magnete che teneva tut­to insieme ha staccato la spina, i pezzi cercano una nuova compo­sizione «tornando alla politica» e certamente Essebì vuole gioca­re, da «padre nobile» come dice lui, anche questa partita per por­tare a dama più pedine possibile e cercando di praticare un reali­smo lineare. La rivoluzione libe­rale in fondo ha oggi più possibili­tà di liberare le sue energie, una volta che il nuovo oggetto avrà preso forma dalle primarie an­nunciate e che da oggi diventano il vero oggetto del desiderio.