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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

BRASSE, IL FOTOGRAFO CHE INCHIODÒ I NAZISTI


Il suo talento di fotografo gli salvò la vita, ma lo condannò poi a un’esistenza di notti insonni tra i tormenti della coscienza e dei ricordi. Fu il testimone e l’archivista per forza della Shoah, il ‘Ritrattista’ dell’Olocausto, fornì al mondo le prove del Male assoluto.
Wilhelm Brasse, patriota polacco, noto al mondo come “il fotografo di Auschwitz”, è morto a 95 anni nella città natale Zywiec. Con lui scompare un eroe umile e sconosciuto quanto
prezioso per la Memoria. Salvò quasi tutte le 40mila e passa foto di prigionieri che scattò, disobbedendo agli ordini dei nazisti e rischiando la morte. Quella fotogalleria di morti viventi,
spoon river in celluloide, inchiodò a Norimberga ideatori, responsabili e esecutori del genocidio del popolo ebraico.
«Per tutto il dopoguerra tentai invano di ricominciare da fotografo
una vita normale. Ogni volta, nel mirino, mi apparivano quei volti giovani e belli, ragazzi, anziani, fanciulle da registrare subito prima che finissero come cavie degli esperimenti del Dottor
Mengele o vittime del gas Zyklone- B», disse. Forse più d’ogni altro lo tormentava il viso dolce e terrorizzato della quattordicenne Czeslawa Kwoka, assassinata dai nazisti il 12 marzo 1943.
Figlio di un austriaco e d’una polacca, Brasse si sentì polacco da sempre. Come il padre, nel 1920-21 soldato di Pilsudski (che inflisse all’Armata rossa l’unica disfatta della storia). Nel 1939, con l’attacco nazista-sovietico, Wilhelm fu catturato dalla Gestapo. Rifiutò di giurare fedeltà a Hitler, fuggì per unirsi all’Armia Krajowa, l’esercito partigiano, o alle forze armate polacche a Londra. Invano. Catturato, divenne la matricola 3444 di Auschwitz. Un numero come tanti, la professione lo salvò: appunto, fotografo professionista.
Meticolosi e precisi, i nazisti gli ordinarono di fotografare di fronte, di lato e di tre quarti ogni deportato. Brasse fu costretto a scattare istantanee d’ogni momento dell’Olocausto: le giovani sotto i ferri del dottor Mengele, sezionate senza anestesia, o col cemento iniettato nell’utero, 800 prigionieri di guerra polacchi e sovietici mandati per primi nel settembre ‘41 alle ‘docce’ per provare l’efficacia del Zyklone-B, i bimbi scheletriti. A volte, i nazisti gli chiedevano fotoritratti per mogli o amichette. Come lo Umtersturmfuehrer Grabner, condannato a morte dopo il ’45 per 25mila assassinii.
Da fotografo per forza Brasse fu un privilegiato controvoglia, lacerato nel cuore dal senso di colpa, e dalla paura di venire eliminato come testimone scomodo. Nel 1943, il famigerato Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich ordinò di non fotografare più gli “oggetti” della “Soluzione finale”: bastava registrare il numero tatuato sul braccio. Davanti ai sovietici in avanzata, le SS ordinarono a Brasse di bruciare i film. Lui li gettò nelle fiamme, poi partiti i nazisti spense il fuoco, e salvò le prove. Fu deportato a Ovest, e liberato dai GI americani. Tornò a casa, nel ’46 si sposò. Alla moglie non parlò mai di Auschwitz, ma lei sapeva.