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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

NAPOLEONE IN RUSSIA UNA STORIA ANCHE ITALIANA

Cade in questi giorni il duecentesimo anniversario della ritirata di Napoleone da Mosca. Non so in Russia, ma mi pare che quest’anno qui da noi i fatti del 1812 siano rimasti più o meno sotto silenzio: è accaduto così anche il mese scorso, per l’anniversario della battaglia di Borodino, o della Moscova, benché questa battaglia sia talmente celebre da essere ricordata in una delle principali vie di Milano. Cosa sperava di ottenere Napoleone spingendosi fino a Mosca? Come mai ci mise tanto a capire di essersi infilato in una situazione, alla lunga, ingestibile? Perché si decise a ritirarsi solo quando le condizioni atmosferiche in quelle regioni poco ospitali stavano ormai volgendo stabilmente al brutto?
Giovanni Maragnoli
g.maragnoli@fastwebnet.it
Caro Maragnoli, ho dovuto eliminare, per motivi di spazio, alcune delle sue domande. A quella principale — perché Napoleone s’impegnò in una operazione così azzardata — rispondo che vi sono circostanze in cui gli avvenimenti diventano comprensibili soltanto ricorrendo alla psicologia dei protagonisti. L’imperatore aveva combattuto molte guerre relativamente brevi in cui la sua abilità, le sue intuizioni e la straordinaria mobilità della Grande Armée avevano sempre prevalso sulla forza congiunta dei suoi nemici. Bastavano alcune rapide vittorie perché il nemico chiedesse un armistizio e la guerra si concludesse di lì a poco con un trattato di pace. Ma non passava molto tempo prima che i nemici dell’imperatore formassero una nuova coalizione e Napoleone, a sua volta, scendesse in campo per giocare brillantemente la carta della sua rapidità. Vi erano, in questo fulmineo susseguirsi di battaglie e armistizi, i germi di una continua instabilità da cui Napoleone era al tempo stesso preoccupato ed eccitato.
Il progetto per una guerra contro la Russia prese corpo quando a Parigi giunse notizia che si stava costituendo una sesta coalizione di cui avrebbero fatto parte l’Inghilterra, la Russia, la Svezia e la Spagna. Napoleone credeva di potere contare su alcuni alleati (l’Austria, la Prussia, gli Stati tedeschi, il Regno italico) e decise di stroncare l’iniziativa giocando d’anticipo. La prima parte della campagna sembrò ripetere scenari già collaudati: una serie di fortunate azioni militari, la vittoria a Smolensk e una battaglia a Borodino che si concluse con una sorta di pareggio, ma aprì alla Grande Armée le porte di Mosca. Quando s’installò al Cremlino, Napoleone credette, nonostante il grande incendio della città, che di lì a poco, come nelle guerre precedenti, avrebbe ricevuto una lettera dello zar Alessandro con una formale richiesta d’armistizio. Ma la lettera non arrivò. Erano cambiate le regole, stava andando in scena un dramma nuovo, diverso da quelli in cui l’imperatore dei francesi aveva dominato la scena. I russi non si consideravano sconfitti e avrebbero avuto ben presto un nuovo alleato nella persona di quello che nella Seconda guerra mondiale sarebbe stato chiamato il «generale inverno». Il resto, caro Maragnoli, è la tragica storia di una disastrosa ritirata da cui comincia la fine dell’Impero napoleonico.
In quella vicenda, come ho scritto in un’altra risposta, vi è il capitolo scritto dagli italiani (più di quarantamila) che presero parte alla campagna. È storia italiana perché così fu vissuta da chi partecipò al conflitto e da tutti coloro che videro in quell’episodio il segnale anticipatore della rinascita dello spirito nazionale. Una lettrice, Chiara Degli Esposti, mi ha ricordato che un grande romanzo italiano della prima metà del Novecento (Il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli) comincia sulle rive di un fiume russo, durante la grande ritirata, mentre un pontiere del corpo di spedizione italiano, il ferrarese Lazzaro Scacerni, lavora alla costruzione di un ponte per il passaggio della Grande Armée. Quelle stesse braccia costruiranno, qualche anno dopo, il mulino intorno al quale si svolge l’azione di un romanzo che comincia sulle rive di un fiume russo e termina su quello del Piave nell’ottobre del 1918.
Sergio Romano