Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

MUSUMECI: IO NELLA PALUDE MA SENZA MALARIA

«Qui nessuno è verginello!», ha urlato in un dibattito col pizzetto vibrante di collera contro «la cosiddetta società civile». Un po’ più verginello degli altri, però, Nello Musumeci giura di esserlo davvero. E a sentire che Micciché lo accusa di essere rimasto fuori dalla vecchia ammucchiata cuffariana perché Totò «Vasa-vasa» non l’aveva voluto nel listino, salta su: «È falso! Se Miccichè arriva a ricorrere alla calunnia vuol dire che è alla canna». «Canna» in che senso? E lui, ridacchiando su certi pettegolezzi palermitani: «Canna in tutti i sensi».
Missino di rito almirantiano, destro fino al midollo ma restio a celebrare la marcia su Roma («Ho una storia diversa, slegata dal passato...»), due mogli, tre figli, sette cani, Musumeci è nato a Militello in Val di Catania: «ma in una parrocchia diversa da quella di Pippo Baudo: io appartengo ai nicolesi». Cioè ai fedeli della Chiesa Madre di San Nicolò-Santissimo Salvatore. Da non confondere con quelli devoti a Santa Maria della Stella. Una rivalità secolare, che sfociò addirittura in un omicidio quando i «mariani», passando con la patrona sotto il poggiolo del barone Salvatore Majorana Cucuzzella invece che fermarsi a rendergli omaggio con l’«inchinata» della «Mammuzza» avevano accelerato il passo. Un’offesa all’onore lavata col sangue.
Anche Nello ci tiene, a certe cose. Anni fa, da presidente della Provincia di Catania, arrivò a proporre che il consiglio fosse elevato al rango di Parlamento mignon. Spiegando che «tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, i rappresentanti della Provincia costituivano l’Onorevole consiglio...». E la seduta si chiude con uno ossequio agli «onorevoli colleghi».
Va da sé che nel ruolo di candidato della destra si ritrova come un fagiolo nel baccello. Nessun problema ad avere tanti personaggi indagati, condannati o chiacchierati nelle liste vicine? «Una classe dirigente non si inventa su due piedi. Per la prima volta ho ottenuto che fosse applicato il regolamento della commissione antimafia. È già un filtro». Non è pochino, visti i risultati? «Una rivoluzione non si può fare in poche settimane. È un passo avanti. La prossima volta andremo oltre». Non teme di restare invischiato? «No». Per questo, dice, gli sta bene che Renata Polverini, che certo popolarissima non è di questi tempi, sia scesa in Sicilia per dare una mano a certi candidati Ugl legati alle sue liste: «E qui come sindacalista...». In ogni caso, si compiace, «la mia identità è così forte che gli elettori la riconoscerebbero anche se fossi immerso in un bagno di melma».
Dicono i suoi avversari che come «volto nuovo» nuovissimo non è. È stato consigliere e poi presidente della provincia di Catania, vicesindaco del capoluogo etneo, coordinatore di An, tre legislature da europarlamentare (pizzicato da l’Espresso come piuttosto assenteista), sottosegretario al lavoro nel «Berlusconi IV» quando in paese apparvero manifesti che dicevano «un secolo dopo Angelo Majorana, un militellese torna al governo della nazione»... Insomma, tutto è meno che un uomo prestato alla politica. Quando glielo ricordano, ridacchia: «Ho attraversato le paludi senza prendermi la malaria».
Dice che non ci pensava proprio, a candidarsi: «Il 18 agosto me ne stavo in campagna a dar acqua alle piante...». A offrirgli la candidatura, com’è noto, fu proprio Miccichè, puntando con Lombardo, probabilmente, a spaccare il centrodestra. A quel punto Alfano ci mise il cappello sopra: «Se è lui lo votiamo anche noi». Fatto sta che allora si sganciarono i promotori: «Se c’è il Pdl non lo votiamo noi».
E adesso eccolo qua a combattere, lui che non è mai stato uno dei «berluscones», nel nome di un partito che non è il suo, una battaglia che potrebbe segnare, in caso di disastro, la fine non solo di Angelino ma del berlusconismo stesso.
Siamo sempre al Gattopardo e alla massima che occorre cambiare tutto perché tutto resti com’è? Musumeci giura di no: «Se vinco faccio subito tre cose. 1) Una decurtazione netta del fondo a disposizione del presidente per le spese non rendicontabili, sempre usate in modo oscuro. 2) Riduzione immediata dei soldi ai gruppi parlamentari che adesso sono un’enormità. 3) Taglio degli emolumenti ai deputati regionali perché non possono guadagnare certe cifre in una Sicilia dove il 29,7% delle famiglie è sotto la soglia di povertà».
E i funzionari? È mai possibile che il segretario generale dell’Ars possa prendere 13.145 euro netti al mese e cioè più del segretario generale dell’Onu? «Sì, certi stipendi sono scandalosi, in questo contesto. In questa Sicilia». Prima ancora, però, dice che se vince vuol capire quanti sono i dipendenti diretti o indiretti della Regione: «Sinceramente, nessuno è stato in grado di dirmi se sono 140 o 170mila…»
Concorda che sì, «l’autonomia è stata spesso usata come alibi per eludere i controlli». Minaccia la guerra ai mega-centri commerciali: «Ce ne sono 460 metri quadri ogni 1000 abitanti, a Catania: hanno ammazzato i piccoli negozianti». Assicura il rilancio dell’agricoltura: «Possiamo essere la piattaforma agricola del Mediterraneo». Promette che lui sì, riuscirà a spendere i fondi europei.
Sembra che, si capisce, ce la faccia a vincere nonostante la cosiddetta «Croc-chè». Ci crede davvero, al fatto che gli uomini di Lombardo e Miccichè, pur di non far vincere il Pdl e Alfano, suggeriscano d’usare il voto disgiunto ed eleggere il democratico Crocetta? «È così. Mi risulta da decine e decine di segnalazioni». Giura che, comunque vada, starà alla larga da stucchevoli vittimismi: «Dobbiamo smetterla di essere un po’ piagnoni. L’Italia e Roma hanno dei debiti enormi, con noi. Ma i primi nemici della Sicilia, ahinoi, sono certi siciliani...»
Gian Antonio Stella