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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

“DOPO VENT’ANNI TORNO SUL PODIO A MILANO”

[Il maestro mancava dalla Scala dal 1993, dirigerà il 30 ottobre la Filarmonica: “È la mia città e la amo”] –
Abbado c’è, è a Milano ed è contento di esserci: «Ritrovo una Scala che ha saputo mantenere il ruolo di primo piano che merita, grazie anche al lavoro di Stéphane Lissner». E la città si prepara al gran rientro di martedì per il figliol prodigo. Verranno a sentirlo anche quelli che, quando se ne andò, non erano nemmeno nati. I soci locali del Club degli Abbadiani Itineranti, stabilizzati se non altro per una sera, arriveranno su un tram dell’Atm noleggiato apposta («l’idea l’ha fatto ridere, gli è piaciuta»), sulle fiancate la scritta «Bentornato alla Scala», in vettura pasticcini, cioccolata, saggi musicali per consultazione, come colonna sonora la Sesta di Mahler beninteso diretta da Abbado: partenza alle 17 e 30 di martedì da piazza Castello, arrivo davanti al teatro due ore dopo, in tempo per la Cosa. A nessuno piace chiamarlo evento, viste le atmosfere felpate dell’undestatement scaligero.

Che però si tratti di data storica neppure il più umbratile dei melomani milanesi può metterlo in dubbio, perché Claudio Abbado, «il Claudio», il local hero simbolo con Paolo Grassi e Maurizio Pollini di una dorata età milanese fatta di Verdi e di Rossini ma anche di Berg e di Nono sublimi, e di concerti per lavoratori e studenti tenuti pure sotto i tendoni e nelle fabbriche, torna nella sua città, sul podio del Piermarini, dopo quasi vent’anni: con il Primo di Chopin e appunto la Sesta di Mahler, alla guida di una megacompagine fatta di Orchestra Filarmonica della Scala e Orchestra Mozart di Bologna, solista al pianoforte in Chopin quel Daniel Barenboim che compie settant’anni e che viene sontuosamente festeggiato con questo e con altri due concerti di lusso (Dudamel stasera e Andris Nelsons il 7 novembre).

Era il 15 febbraio del 1993 quando Abbado diresse i Berliner Philarmoniker nella Prima di Brahms e in Tod und Verklärung di Richard Strauss, e gli lanciarono i fiori perché già quello era un ritorno storico. Ma per riandare all’ultima volta che guidò al Piermarini l’Orchestra della Scala si parla addirittura dell’86, quando il muro era ancora su e alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, «un concerto», rievocano i nostalgici, «che non immaginavamo sarebbe stato il definitivo, subito dopo un Pelléas et Mélisande da sogno». Suggello sublime ma amaro a diciott’anni di direzione musicale stabile: poi venne un periodo che non si potè che definire d’esilio, una lontananza venata di tristezza, come un proteggersi dalla Milano odiosamata: il Claudio trionfava a Vienna, a Londra, a Berlino, a Lucerna, anche a Torino, Ferrara e Bologna, ma alla Scala non poteva e poi non voleva tornare. Tre anni e mezzo fa la speranza concreta di rivederlo, con la promessa, da parte degli allora regnanti Letizia Moratti e Filippo Penati, di un cachet in natura fatto di alberi per la riforestazione della città: perfino un bosco druidico (da quel punto di vista si è contenti che non se ne fece nulla), e comunque il maestro defezionò per ragioni di salute, e poi forse non era ancora il momento giusto.

Ma adesso è a Milano: da domenica scorsa. Dorme in un grande albergo nel Quadrilatero, è schivo e timido più che mai, però felice di essere «in questa che è la mia città: una città che amo». L’aspettano al varco per vedere se martedì sera si commuoverà, «avrà un bel prepararsi davanti allo specchio ma siamo sicuri che spunterà la lacrima». Già spuntata a chi ha assistito alle prove: alla prima, in platea, erano schierati ad ascoltarlo Gustavo Dudamel e Diego Matheuz, il che significa che, con Barenboim al piano, erano tre gli altri direttori d’orchestra presenti in sala. Più tardi sono arrivati a salutarlo la storica spalla della Scala, Franco Fantini, e un altro violinista dei tempi leggendari, Giuseppe Albanesi. Diciotto i professori che già l’avevano avuto come direttore stabile negli anni Ottanta, ma ce ne sono alcuni che hanno lavorato con lui all’Orchestra Giovanile Mahler o altrove. Tutti emozionati, concentrati, qualcuno dei più giovani sorpreso di vedere come lavora alle prove, «di tre ore più tre ore», spiega uno di loro, «con il tempo di curare meticolosamente i passaggi e, se mi permette il termine, di fare quasi delle jam session». Sintetizza Ernesto Schiavi, direttore artistico della Filarmonica ed ex orchestrale con Abbado ai tempi mitici: «È una bellissima festa ma c’è poco da rilassarsi, è un concerto diretto da Claudio Abbado, s’immagini quanto è esigente. Ed è anche una serata molto speciale per le dimensioni dell’orchestra».

Conoscendo il tipo, nessuno s’è azzardato a organizzare cerimonie, cene ufficiali, premiazioni o lezioni cattedratiche; il Claudio non andrà nemmeno dagli Amici della Scala che pure ci sono rimasti un po’ male, ma si sa com’è fatto. Cioè, nella definizione di Attilia «Tilla» Giuliani, anima degli abbadiani itineranti, una dei pochi che da Milano lo sente regolarmente per telefono, «un uomo che pensa solo alla musica e con quelli che la musica la fanno è cordiale, di compagnia. Nelle altre situazioni, un pesce fuor d’acqua. Ma ci piace anche per quello».