Mario Ajello, Il Messaggero 25/10/2012, 25 ottobre 2012
LA LUNGA PARABOLA DEL CAV
La parabola è compiuta. La berlusconeide, questa cavalcata lunga quasi vent’anni, arriva a un punto fermo dopo tante svolte, slanci, ripensamenti, invenzioni, sconfitte, discese ardite e risalite. Non siamo più alla tendenza del Cavaliere a credersi eterno e contemporaneamente a immaginare il fatidico passo indietro per farsi «padre nobile» ma rinunciandovi ogni volta perché «i moderati italiani hanno bisogno di me». Anche stavolta si muove in nome dei moderati italiani da unificare (stessa formula che usò nel discorso della discesa in campo del ’94).
Il Cavaliere, che è un pezzo di storia, alla storia fa capire di volersi regalare tra l’entusiasmo di chi, come Fedele Confalonieri e Giuliano Ferrara, la chiusura di questa parabola la consigliava da tempo all’amico Silvio. Il quale ha sempre avuto il rovello della propria eredità politica e mai ha seriamente coltivato la presunzione di credere che dopo di lui ci sarebbe stato il diluvio, a patto di trovare il nome giusto per il futuro.
E infatti ha più volte parlato di primarie (per poi ritirare la proposta o l’annuncio) e investito della successione Alfano nel luglio 2011 («A 77 anni non posso più fare il presidente del consiglio») per poi dire che «Angelino non ha il quid» ma senza mai volerlo rottamare. Anzi considerando Alfano - come Berlusconi fa anche in queste ore - una risorsa da non sprecare e tantomeno da rottamare come si meritano a suo parere i troppi «parrucconi» che affollano il Pdl. Già varie volte Berlusconi ha vissuto la condizione dell’uscita di scena. Ma se stavolta è volontaria, e figlia di un realismo di cui molti erano convinti che difettasse al massimo grado, non lo fu affatto nel ’95 e nel ’96, ad esempio, quando la rottura con Bossi («Berluskaiser», «Un ubriaco da bar di provincia»: lo scambio di piacevolezze tra i due) pareva dover significare la chiusura anticipata della parabola politica berlusconiana. E quante volte, lungo gli anni della cosiddetta traversata del deserto mentre governava fino al 2001 il centrosinistra, egli stesso - sia pure mordendosi la lingua subito dopo - ha offerto la guida dei moderati italiani a Roberto Formigoni, a Pier Ferdinando Casini (già ai tempi del Ccd: «Prima o poi sarai tu alla testa della coalizione»), a Letizia Moratti («Anche l’Italia avrà la sua signora Thatcher») e soprattutto a Gianfranco Fini? A quest’ultimo, anche durante i primi dissidi forti poi diventati irreparabili con il «che fai, mi cacci?», Berlusconi prometteva: «Non avere fretta, non fare intemperanze, il tempo è dalla tua parte e potrai essere il mio successore». Di sicuro l’attuale presidente della Camera è stato l’indiretto anticipatore di un’intenzione, quella dell’impegno politico di Berlusconi, il quale come prima dichiarazione politico-elettorale esplicita disse il 23 novembre del ’93 a proposito della sfida per il Campidoglio: «Se votassi a Roma, sceglierei Fini».
L’uscita di scena - ma più come erasmiana follia che come progetto di pronto impiego - fa parte del personaggio Berlusconi prima ancora Berlusconi entrasse in politica. Quando nella primavera del ’93 andò da Mario Segni e da Mino Martinazzoli per chiedere a loro, offrendogli il proprio sostegno logistico e finanziario, di rappresentare i moderati dopo il crollo della Prima Repubblica e di «salvare l’Italia dal comunismo». Martinazzoli replicò, dopo essere stato per due ore intrattenuto da Berlusconi che gli mostrava sondaggi e tabelle: «Cavaliere, non si fa politica con il pallottoliere». Ma lui l’ha sempre fatta e anche da padre nobile o da senatore, se si candiderà al Senato, continuerà a farla: perchè la somma delle tante listarelle che ha in mente dovrà dare, nelle sue intenzioni, la vittoria elettorale anche se improbabile o almeno una sconfitta proficua.
L’uscita di scena sarebbe potuta essere cruenta, come spesso è accaduto ai monarchi. «Quella statuetta mi avrebbe potuto uccidere», disse Berlusconi dopo il lancio di madonnina cui fu oggetto il 13 dicembre 2009 da parte di Massimo Tartaglia a piazza Duomo a Milano. Ma prima di allora, in un altro 13 dicembre, stavolta a piazza Navona, a Roma, nel 2004, un treppiede gli fu scagliato addosso da un contestatore. La berlusconeide si arricchì di una nuova sequenza e il perdono da parte del Cavaliere al giovane arrabbiato fu l’occasione per il sovrano di mostrarsi magnanimo con il suo popolo, anche quando sbaglia. Così come la sequela dei processi è stata e viene vissuta come occasione, naturalmente non voluta e assai sofferta, di vittimismo, anche se tra vicenda D’Addario e caso Ruby la rottamazione del Cav. non è avvenuta.
Qui interessano soprattutto le discese ardite e le risalite politiche del Cavaliere. Due sequenze, da questo punto di vista, resteranno particolarmente impresse nella memoria collettiva. Quando Silvio sale sul predellino dell’auto a piazza San Babila e di colpo rottama Forza Italia, annunciando la nascita di quello che sarà il Popolo della libertà. E quando riesce, durante il primo governo di centrosinistra, a rimettere insieme la coalizione del ’94 (un po’ come John Belushi con la band dei Blues Brothers nell’omonimo film celeberrimo) e a presentarsi già vincente in quella famosa puntata di Porta a Porta dove firmò il Contratto con gli italiani per la legislatura 2001-2006.
Una storia italiana, come da titolo del celebre fotoromanzo elettorale confezionatogli da Sandro Bondi; una storia arci-italiana; e una storia però anche poco italiana, perchè il tycoon che diventa premier qui non s’era mai visto prima: ecco la parabola del Cavaliere. Al quale è connaturato il senso del movimento (scendere, risalire, spostarsi, avanti, indietro, di lato) al punto che Confalonieri, esagerando per devozione e affetto, ha azzardato un paragone: «Silvio è come Mozart. Avete mai sentito una sonata di Amadeus che sia statica e stantia?». Mai sentita. Il che significa che l’ultima svolta del Cavaliere può considerarsi definitiva ma è inimmaginabile un Berlusconi che stia fermo o che si possa limitare, come ha dichiarato qualche volta lui stesso, a costruire ospedali per i poveri in qualche lontana contrada d’Africa.