Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 22/10/2012, 22 ottobre 2012
“IO E TE”, ULTIMO TANGO DEL MIO NOVECENTO
Prima della rivoluzione, davanti all’inattesa piega degli eventi, Bernardo Bertolucci ha eretto le barricate: “Una lotta impari, combattuta con rabbia e fisioterapie intensissime, al solo scopo di controllare il dolore dopo l’operazione all’ernia discale”. Nel fumo, ha truccato i segni del destino, trasformato la resa in resurrezione e il furore in creatività. “Mi ero chiuso in casa, venivano a trovarmi solo gliamicipiùcari”.Pausa,occhichevaganooltrel’interlocutore. “Ma vede quel grande schermo dietro di lei? Il muro dipinto di biancoopacoèilmigliorehomescreen cheesista.Quelbucolàdi fronte è per il proiettore piazzato in cucina, sopra il forno, a gocciolare grasso e senso di clausura”. A chi ha la schiena dritta, non serve stare in piedi. Così da una consapevolezza e da un gioco semantico: “Ho imparato ad accettare questa” – la tocca –“ la mia sedia elettrica”, il regista che non può più camminare ha ripreso a correre. A 71 anni, con Io e te, educazione sentimentale violenta e liberatoria ritmata dallo stesso battito rapido di quando ne aveva 21: “L’esordio fu un sogno. Tonino Cervi, produttore e padre di Valentina, aveva comprato da Pasolini i diritti de La commare secca. Lo sceneggiai con Sergio Citti.Misorprese:‘Tuvuoifareil regista, vero... perché non ci provi te?’. Finsi naturalezza, il cuore batteva fortissimo. Vivevo con i miei, occupavo il bagno per primo e poi uscivo come uno studente che va a scuola. Invece andavo sul set. Lì ero il più giovane”. Bertolucci non affrontava una prova dal 2002. Per rialzarsi c’è voluto coraggio. “C’era lo spirito della avventura-scommessa e il forte timore di mollare dopo due settimane, il desiderio di rinascere e la paura del dolore fisico. Sapevo che Io e te avrebbe detto molto su di me, forse qualcosa di fatale, di definitivo. Da quando ho detto ‘motore’ è cambiato tutto. Una terapia meravigliosa. Come il mio protagonista, mi ero chiuso nella mia cantina. Adesso ho voglia di raccontare ancora, di un altro film. Un’idea c’è, un kammerspiele kolossal, una follia molto eccitante”. Se si farà, non diversamente dall’Io e te tratto dal libro di Ammaniti, produrrà Mario Gianani, illuminato animatore con Lorenzo Mieli di un lato selvaggio che rifiuta cattedre e conformismi. Io e te è costato poco: “Il budget contenuto è stato un’enorme conquista”. La relativa mobilità una falsa preoccupazione: “Nulla rispetto alla necessità del desiderio”. L’accoglienza di Cannes ai due convincenti esordienti di Bertolucci (Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco) simile a quando Bernardò apriva la Quinzaine in jeans e gli anni 70 brillavano per l’abiura dell’istituzione: “Nel ’68, suggestionato dal no al Nobel di Sartre, dissi che se avessi vinto un Oscar l’avrei rifiutato. Poi me ne diedero 9 e non feci una piega”. A Giuseppe, il fratello scomparso in estate, Io e te è dedicato. Un cartello a nero. Un fiore. Quando Bernardo gliel’aveva fatto vedere, in un primo montaggio Giuseppe era contento: “Che bello, ti sei liberato dai tuoi piccoli vizi, dai narcisismi inutili della tua macchina da presa”. Nella descrizione di un riconoscimento reciproco tra due adolescenti, il filo di Io e te: “Un passaggio in cui cerchi risposte, ma non le trovi perché non le vuoi davvero”, Bertolucci ha scorto una rifrazione biografica. Mentre amministra la ritrovata parsimonia di un gesto, annusa una torta o aspira tabacco, lo specchio della riserva indiana di Trastevere, silenzi e grida infantili dal cortile, riflette un profilo rassicurante. Dove Fernanda Pivano ambientò una Casbah felliniana, Bernardo ha mantenuto dritta la rotta. La nave va. Naviga ancora.
Lei e suo fratello Giuseppe a Parma, primi anni 40. Immersi nella mitologia della campagna inventata da vostro padre.
La città a 5 chilometri che a noi sembravano 100, gli alberi a dividere i due mondi. Il Po era il nostro Mississippi. Noi bambini andavamo a caccia di rane.
Vostro padre Attilio, poeta. Scriveva anche di voi.
L’ultimo verso di ‘A Bernardo, a cinque anni...’: “Corri, vieni a rifugiarti nella nostra ansia”. Grazie tante.
Giuseppe divenne regista per emanciparsi dall’ansia paterna:
“Per trovare un io, una prima persona”.
In tutte le famiglie si lotta contro la figura del padre, io lo facevo con Attilio e a Giuseppe toccava il compito più ingrato. Scontrarsi con lui e con suo fratello maggiore. Per questo è diventato molto più intelligente di me, con una capacità di analisi e saggezza che io non ho mai neanche sfiorato.
Lei ha detto di non aver più rivisto la casa della vostra infanzia.
Novecento mi è servito a regolare i conti con quella terra, con il passato, con le ascendenze. Ho sigillato l’origine e chiuso un capitolo che non riaprirò. A Parma temo di non tornarci più, non ci riesco.
Novecento ebbe una lavorazione infinita.
Sognavo non terminasse mai. Durò un anno, vidi cambiare i volti, le stagioni, i profumi. Prima di Apocalypse now Coppola che intanto aveva assoldato il “mio” Storaro mi giurò: “Il mio film durerà un minuto in più del tuo Novecento”. Competizione infantile senza dubbio, ma bella. Bizzarra. Non ci riuscì.
Anni eroici?
Novecento coincise con una precisa sensazione di onnipotenza. Venivo dall’esperienza di Ultimo Tango a Parigi, covavo l’illusione che avrei potuto girare tutto quello che volevo. Misi insieme 3 distribuzioni americane. Fox, United Artists e Paramount per poter dire: ‘Avete visto? Ho convinto 3 major statunitensi a finanziare un film dove si vedrà la più grande bandiera rossa mai apparsa sullo schermo”.
Andò tutto come previsto?
Esattamente il contrario. Me la fecero pagare e non distribuirono il film. Una frustrazione enorme. Per quella storia quasi mi ammalai. Da Parma, 25 anni prima di Novecento, era migrato a Sud. A 12 anni, a Roma, in via Carini, Monteverde vecchio. A scuola, con coetanei che parlavano con un accento che io non conoscevo.
Roma la turbò?
Fu uno choc. Mi mancava la nobiltà, la furbizia dei contadini. Roma l’avevo vista solo in cartolina, in principio fu spaesante. Passavo pomeriggi al cinema del Vascello e nelle sale parrocchiali. Eisenstein, Pudovkin, Chaplin.
Al primo piano di via Carini abitava Pasolini.
I miei dormono, è una domenica pomeriggio, suonano alla porta. Una voce: ‘Cerco Attilio Bertolucci’. Chiudo la porta lasciandolo sul pianerottolo, sveglio mio padre: ‘C’è un certo Pasolini, ha la faccia da ladro, l’ho chiuso fuori dall’uscio’. Lui si solleva e urla: ‘Ma come? È un grande poeta, vai subito ad aprire’.
Diventaste amici. Molto. Pier Paolo mi offrì di fare l’aiuto regista in Accattone. ‘Non so come si fa e lui: ‘Neanche io’. Iniziammo. Alfredo Bini, il produttore, aveva affiancato a Pier Paolo un simpatico regista ciociaro, Leopoldo Savona, grande amico di Peppe De Santis.
Un tutor?
Più o meno. Dopo due giorni capì che era Pier Paolo a insegnargli cinema, non l’opposto. Avrebbe dovuto girare La Commare Secca.
Che invece girò lei.
Sapevo che i paragoni con Pasolini mi avrebbero inseguito, così cercai di fare il film meno pasoliniano che ci fosse. Nessuna sacralità come in Accattone, ma movimenti avvolgenti di seduzione tra regista e attori.
Ci riuscì?
Credevo, speravo, ma a Venezia la critica fu dura. Colpi allo stile, ai dialoghi, alla cifra narrativa.
Paolo Sorrentino riporta una sua definizione:
“I critici sono alpini di pianura”.
Spesso i critici sono pigri e prevenuti, ma rarissimamente qualcuno ti spiega una tua sequenza che non avevi capito. È un bel momento. Un’emozione un po’ perversa. (Sorride)
Il primissimo lavoro?
Due piccoli film. La teleferica e Morte di un maiale, filmati con una 16 mm di un dentista emigrato in Argentina, il marito di una cugina di mio padre. La cinepresa era una “Paillard bolex” quelle che si caricavano a molla.
Gliela regalò?
Me la presto per un anno, poi si dimenticò. Avrei potuto tenermela ma la restituii, mi sembrava ormai inadatta. Volevo con determinazione una troupe e una 35mm. I miei filmini di allora erano molto influenzati da ciò che vedevo al cineclub, fitti di inquadrature pretenziose, anelavo già al cinema professionale.
Li ha conservati?
Lucilla Albano, studiosa di cinema e vedova di Giuseppe, me li chiese per anni. Alla fine confessai. Li ho buttati via a 23 anni, distrutti, fatti sparire. Erano in una mansarda dei miei genitori, li trasferii nel baule di una macchina, li tenni sottovuoto per qualche mese e poi me ne liberai.
Rivede i suoi film?
Mai. Mi imbarazza, ma con mia moglie Clare sì.
Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può
capire che cosa sia la dolcezza del vivere.
Era la frase di Talleyrand che introduceva il mio film stendhaliano. L’istante che precede l’incendio mi ha sempre affascinato .
Anche lei difende la concentrazione con biglietti sulla porta? Stendhal appendeva fogli: “Il signore è a caccia”.
Neanche un po’, il contrario, la porta la apro e faccio entrare la realtà che mi circonda. Le mie troupe lo sanno. Se fiuto una buona idea, anche da una frase in libertà, trovo uno spazio. Sono un ladro. Rubo. Resto vigile.
Altri hanno vigilato su di lei . Le accadde di vivere la profezia di Bradbury. Il rogo delle idee. La distruzione di Ultimo Tango. Decise un tribunale italiano per “esasperato pansessualismo”.
Mi sarebbe piaciuto vederlo ‘sto film pansessuale. Il primo processo, si tenne a Bologna nel ‘73. Il giudice, un uomo colto, era il fratello di Aldo Moro. Ascoltò, valutò, capì. Fummo assolti. L’arringa dell’accusa, un testo sottoboccaccesco . Volgarissima, burocratica e tragicomica. Fu un momento di sconfinata umiliazione.
A Roma perdeste. Lei chiese la grazia per il film.
Un’idea romantica che ben dipingeva la miseria di un regista costretto a pietire.
Pannella si attivò.
Lo incontrai una sola volta. Da comunista, nonostante fosse l’autore delle fondamentali conquiste civili di quell’epoca, io sospettavo. Fece cose incredibili per il film, Pannella. Trafugò anche una copia in Super 8, forse pirata.
L’idea originaria?
Dan Talbot, proprietario del cinema New Yorker, voleva produrmi un nuovo film. ‘Scrivimi una pagina’. Immaginai la storia di un uomo e di una donna che si incontravano solo per fare l’amore e solo per quello. Tentavano di comunicare con i corpi al di fuori della loro cultura, identità sociale e appartenenza. Il mondo altrove e loro due dentro. Nient’altro.
Neanche i nomi propri. Solo l’abbandono
reciproco.
Brando durante le prove urlava: “No Naaaameeees here!”. Lui e Maria Schneider, più che aderire ai personaggi scritti, divennero loro stessi il film.
Brando accettò dopo una lunga seduzione.
Non prima che Belmondo mi avesse cacciato dall’ufficio per pornografia e Delon avesse tentato di proporsi nell’inaccettabile ruolo di produttore e attore protagonista.
Brando subordinò il sì a una sua visita
americana.
“Vieni a Los Angeles che parliamo del film”. Un mese tra i coyote, Mulholland Drive e i ristoranti giapponesi nei grattacieli. Dietro ai vetri oscurati, nessuno avrebbe potuto riconoscerlo. Di Ultimo Tango non parlammo mai.
Silenzio anche con con De Niro, il laconico?
Bob è sublime, ma con lui i giornalisti tentano il suicidio.
Le piaceva il cinema americano?
Ero pazzo dei loro film d’azione e mi chiedevo: ‘Ma perché non sono nato negli Usa per fare film gangster, western o commedie musicali? La mia vena mai sviluppata. In quasi tutti i miei lavori ci sono momenti sinceramente comici, momenti di danza. Sassi di Pollicino. Tracce.
Ne “Il conformista” ci sono il vero indirizzo e numero di telefono di Godard al tempo. Al New York Festival li mise in piazza.
A Jean Luc non lo dissi, in sala capì solo chi sapeva.
Teme la coerenza?
La temo e quindi la cerco, però quando giro non penso a nient’altro che al film. Non mi domando ‘questa scena piacerà?’ o ‘come verrà presa questa inquadratura?’. Sarebbe paralizzante. Spessissimo cambio idea. Al mio punto di vista permetto di contraddirsi in continuazione. Dove c’è contraddizione c’è vita. E poi con mia moglie Clare ogni notte, prima di girare, rielaboriamo la scena del giorno dopo. È la mia collaboratrice più importante.
Lei conobbe Craxi. Mai immaginato di farne un film?
Me lo ricordo ad Hammamet, con Bobo alla chitarra, mentre canta Piazza Grande di Dalla. Mi faceva pensare a Gambadilegno con un sorriso accattivante: “A modo mio, avrei bisogno di carezze anch’io”.
L’israeliano Amos Gitai la convinse a recitare.
No, mi costrinse. Mi ricattò: ‘Please, please, je suis le juif errant’, l’ebreo errante. Il mio ruolo era quello di un losco, orrendo ufficiale giudiziario. Un pignoratore che faceva portar via dalle case masserizie miserabili, materassi sporchi di piscio. Credo che Amos volesse dire che il suo era un cinema puro, il mio commerciale e corrotto.
Gitai la pagò?
Mi si avvicinò ‘Come vuoi che ti paghi? Stavo per comprare una meravigliosa valigia’. Me la regalò. La mia paga.
Per i protagonisti di “Io e te” è stata una fortuna lavorare con il
regista che conosce i giovani meglio di se stesso?
Tea e Jacopo sono stati straordinari, ma io non volevo soltanto filmarli per essere con loro. Volevo essere loro. Durante le riprese lo sono stato e anche se il turbamento si affievolisce, lo sono ancora. Le sto offrendo una sponda. Reagisca!
Ci aiuti, Bertolucci.
Ma certo, Madame Bovary c’est moi. (L’ultimo tiro di sigaretta biologica riempie la stanza. Con gli artisti e i santi laici ogni nuvola sa di incenso, mirra, oro nascosto).