Martin Wolf, Il Sole 24 Ore 24/10/2012, 24 ottobre 2012
LA LENTA CONVALESCENZA DEGLI STATES
Quanto è andata male l’economia sotto Barack Obama? Ronald Reagan pose la versione politica di questa domanda nel dibattito presidenziale contro Jimmy Carter nel 1980, quando chiese: «State meglio oggi di come stavate quattro anni fa?». E naturalmente è la domanda che Mitt Romney pone oggi.
A un primo sguardo, la risposta è: appena un pochettino meglio. Nel secondo trimestre del 2012, il Pil era superiore del 5,2 per cento a quello del quarto trimestre del 2008, l’ultimo prima che entrasse in carica Obama. Il tasso di disoccupazione destagionalizzato di settembre (7,8%) era uguale a quello del gennaio 2009. Ma essendo Obama entrato in carica in un momento in cui l’economia si dibatteva fra le spire di una colossale crisi finanziaria, gli analisti devono chiedersi se questi risultati sono accettabili date le circostanze, come sostengono i supporter del presidente, oppure se sono deludenti, come insistono i suoi avversari.
John Taylor, professore dell’Università di Stanford, un macroeconomista molto stimato, non ha dubbi sulla risposta. In un blog recentemente ha sostenuto che di regola le crisi finanziarie negli Stati Uniti sono seguite da una forte crescita, con l’eccezione di questa. E la colpa, sostiene, è delle politiche adottate da Obama. Certo, il professor Taylor fa parte della squadra economica di Romney. Ma il dubbio rimane: ha ragione? La risposta è no. Ma è importante chiedersi perché.
La prima domanda da farsi è se il professor Taylor non stia comparando le mele con le pere. A smentirlo c’è l’ampio consenso sul fatto che i postumi di una crisi finanziaria di sistema sono più gravi di quelli di recessioni dalle caratteristiche meno particolari. L’eccellente ricerca condotta da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff nel libro che ormai è diventato un classico, Questa volta è diverso: otto secoli di follia finanziaria, ha contribuito a creareil consenso. La tesi è supportata anche dallo storico dell’economia Alan Taylor, nel un recente studio The Great Leveraging.
Reinhart e Rogoff definiscono "crisi finanziaria di sistema" una crisi caratterizzata da una bolla immobiliare ed elevati livelli di indebitamento. Né l’una né l’altra cosa hanno preceduto le recessioni del 1973 e del 1981. Tanto la fase precedente quanto gli effetti della recente crisi sono stati piuttosto diversi dalle recessioni della metà degli anni 70, dei primi anni 80 e dei primi anni 90. Vale per i prezzi reali delle case, l’inflazione, i tassi di interesse e il debito.
La seconda domanda è se la velocità della ripresa sia un indicatore di successo attendibile. La risposta è no. Per capirlo focalizziamo l’attenzione sulle crisi finanziarie di sistema cominciate rispettivamente nel 1893, nel 1907, nel 1929 e nel 2007. La peculiarità di questa recessione non è la debolezza della ripresa, ma la debolezza della contrazione. Il motivo principale per cui la ripresa appare debole è che la contrazione è stata molto contenuta rispetto alle proporzioni della crisi finanziaria. E questo è uno straordinario successo di politica economica.
Reinhart e Rogoff fanno notare anche che la contrazione economica seguita alla recente crisi è stata più contenuta di quelle seguite alle precedenti crisi di sistema. Inoltre, a cinque anni di distanza, il Pil pro capite reale, rispetto al dato di riferimento, è più alto che nella media delle altre crisi di sistema. È questo ciò che conta. Una ripresa più forte dopo un tracollo più grave non è davvero meglio di una ripresa più lenta dopo un tracollo meno accentuato.
La terza domanda è se abbia senso concentrarsi solo su quello che è successo negli Stati Uniti. L’economista Michael Bordo di Rutgers contesta il fatto che Reinhart e Rogoff mettano insieme Paesi «con istituzioni, strutture finanziarie e politiche economiche diverse». Ma sembra difficile sostenere che gli Stati Uniti di fine Ottocento o inizio Novecento, con il sistema aureo, nessuna garanzia sui depositi, nessuna Banca centrale fino al 1913 e una spesa minima del Governo federale, siano più simili agli Stati Uniti dei nostri giorni di quanto non lo siano il Giappone o la Svezia degli anni 90 o la Spagna e il Regno Unito di adesso. Reinhart e Rogoff hanno sicuramente ragione a rifiutare questo appello all’eccezionalismo americano. Oltre a questo, limitare l’analisi all’esperienza statunitense limita anche la gamma delle comparazioni, costringendo i ricercatori a includere molte recessioni americane di rilevanza marginale, come minimo, rispetto all’esigenza di concentrarsi sulle crisi di sistema.
Le comparazioni internazionali effettuate da Reinhart e Rogoff si rivelano piuttosto significative. La performance degli Stati Uniti in questa crisi è stata nettamente migliore della media degli altri Paesi ad alto reddito colpiti dalla recente ondata di crisi bancarie di sistema. Anche in questo caso l’analisi supporta la tesi che vuole che le crisi finanziarie di sistema provochino recessioni più profonde e durature. Usando un database di oltre 200 recessioni nell’arco di 140 anni in 14 Paesi ad altro reddito, Taylor sostiene che la combinazione fra boom del credito e crisi finanziaria impone «pressioni al ribasso di anomala gravità sulla crescita, sui prezzi e sugli investimenti fissi per periodi prolungati».
In sostanza, non abbiamo motivo per considerare negativamente l’andamento de ll’economia americana sotto il presidente Obama, considerando le condizioni che si è trovato in eredità. Ma questo non significa che la ripresa non avrebbe potuto essere molto più solida di come è stata. La politica economica non ha sostenuto a sufficienza la ripresa. In parte perché l’amministrazione ha sottovalutato le forze recessive all’opera, ma ancora di più perché i repubblicani si sono opposti a qualsiasi stimolo. In un’economia afflitta dall’implosione di un enorme boom del credito, le forze recessive sono inevitabilmente forti e durature. Con i tassi di interesse a zero, l’efficacia della politica monetaria è stata limitata. Alla luce di tutto questo la legge per la ripresa e i reinvestimenti varata da Obama (cioè il piano di stimoli del 2009), che è ammontata in media a poco più del 2% del Pil negli anni in cui è stata in vigore, è stata davvero troppo poco.
Il grande successo della politica economica sta nel fatto di aver limitato la gravità della recessione post-crisi. Il merito è in gran parte della Federal Reserve e della decisione di impedire un collasso finanziario, nell’autunno del 2008. Ma è merito anche delle iniziative intelligenti, per quanto limitate, prese dal l’amministrazione Obama. E secondo comparazioni storiche e internazionali l’economia americana se l’è cavata piuttosto bene. Concentrarsi sulla ripresa, senza guardare alla contrazione, è chiaramente fuorviante. Infine, se non c’è stata una ripresa più forte una parte considerevole della colpa è da attribuire all’ostruzionismo dei repubblicani in Parlamento. Ma la grande domanda è: e adesso? Chi ha le politiche giuste per garantire una ripresa forte e sostenuta negli Stati Uniti?
© The Financial Times Limited 2012
(Traduzione di Fabio Galimberti)