Giorgio Ponziano, ItaliaOggi 20/10/2012, 20 ottobre 2012
IL SUD CERCHI DI CAPIRE PERCHÉ È COSÌ
Luigi Chiarello
«Il Sud è la palla al piede del Risorgimento che poi diventa, paradossalmente, la chiave di volta del successo politico, civile ed economico del paese». Perché? Per un inconfessabile «tacito patto, fatto di governabilità in cambio di denaro pubblico»: un accordo tra il potere centrale e la casta dei «gentiluomini» meridionali, «che assicura stabilità al paese e libertà di governo alle sparute élite liberali».
Ma lascia il Mezzogiorno in uno stato semifeudale. Fino ad oggi, dove le popolazioni, come a fine ’800, «continuano a votare i notabili più bravi a drenare risorse dal centro alle periferie». Paolo Macry, storico contemporaneo, decripta il paese col realismo del chirurgo. Diagnosi, decorso, riabilitazione: la sua lettura dei tempi ha le cadenze del processo clinico. E la sua verità è cinica, non indulge al romanzo: nell’ultima fatica, «Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi» (Il Mulino), Macry ricompone il puzzle delle criticità che l’unificazione ha scontato nella pancia della Penisola. Senza ipocrisie, inchioda il Meridione alle sue sofferenze. Lui, meridionale con la Y nel cognome: «Mio padre era calabrese, di Polistena», svela.
E la Y? «Un refuso dell’anagrafe»...
Domanda. Ci dica la sua versione, in una battuta, dell’unificazione d’Italia...
Risposta. È un fenomeno che matura nel tempo e con successo, ma che, nel 1860, diventa lacerato e conflittuale. Il Risorgimento è unificazione e lacerazione.
D. In che senso?
R. Queste lacerazioni, questi conflitti, hanno molto a che fare con la parte meridionale della penisola. Il Risorgimento diventa un fenomeno particolarmente controverso nel 1860, cioè quando arriva nel Mezzogiorno. Perché, nel Regno delle Due Sicilie, incontra un contesto politico, sociale e culturale particolarmente complesso. Un contesto molto diverso dal resto d’Italia.
D. Andiamo al sodo: l’Unità d’Italia fu un sacco del Sud, del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, le cui risorse vennero trasferite in Nord Italia?
R. Detta così è un’esagerazione. Sì, esiste un drenaggio di risorse finanziarie dal Sud al Nord. Un fatto, questo, messo in rilievo non solo dalla pubblicistica filoborbonica, ma anche da osservatori e analisti tutt’altro che antiunitari, come Nitti. Ma tutto questo ha a che fare con la storia successiva dell’Italia unita. Io penso che i problemi nascano prima, ovvero nel momento in cui il Risorgimento sbarca, per così dire, a Sud.
D. Perché?
R. L’impresa dei Mille impone a Cavour un’agenda politica che include l’immediato inserimento del Sud nel regno d’Italia. Ma il Mezzogiorno, già nel 1860, è un territorio estremamente problematico, con istituzioni illiberali ma deboli, con un tessuto sociale fragile, lacerato al proprio interno dall’eterno conflitto tra proprietari e contadini, appesantito dai residui della feudalità, amministrato localmente da fazioni notabilari in lotta fra loro.
Un territorio travagliato e talvolta insanguinato dalla mai risolta questione demaniale. Ha insomma caratteri politici, sociali e civili lontani da quelli del resto del paese. E, a maggior ragione, dell’Europa occidentale. Per questo i Piemontesi, una volta arrivati a Napoli, esclamano: «Ma questa non è Italia, è Africa!»
D. Eppure, secondo recenti studi che bastava rispolverare, i titoli di stato del Regno di Napoli erano un po’ come i Bund tedeschi di oggi. Mentre il Piemonte era lo stato più indebitato dello Stivale...
R. Nego che ci sia stato uno sfruttamento e un rapporto di tipo coloniale tra Nord e Sud. E non credo assolutamente che Cavour avesse interesse a conquistare il Mezzogiorno per rimpinguare le casse del regno sabaudo.
D. Cavour non voleva il Sud? Perché?
R. Ancora all’inizio del 1860 Cavour non ha nella propria agenda politica l’assorbimento rapido del Sud nella compagine unitaria. A Giuseppe Massari, uno degli esuli antiborbonici napoletani, proprio in quelle settimane, Cavour scrive: «Per adesso non possiamo occuparci del Sud». Il Mezzogiorno nel Risorgimento entra in gioco solo perché i democratici, da Crispi a Garibaldi, impongono da subito l’unificazione di tutta la penisola. Stravolgendo, di fatto, il calendario politico dei liberali. Dei cavouriani.
D. E che timing aveva Cavour?
R. Detto in modo approssimativo, la sua prospettiva era quella di un regno dell’Italia del Nord, il quale poi avrebbe naturalmente egemonizzato il resto della penisola, attraverso forme da definirsi. Di tipo federativo. D’altro canto, l’idea di un accordo tra Torino, Roma e Napoli, cioè tra i Savoia, il Pontefice e i Borboni, era ben vista nelle cancellerie dell’Europa occidentale. E in Francia innanzitutto.
D. D’accordo, ma i forzieri del Regno borbonico erano pieni, quelli piemontesi un po’ meno...
R. È vero che le finanze piemontesi erano in cattive acque. Anche per gli impegni bellici che il Piemonte affrontava all’epoca. Ma questo non vuol dire che le Due Sicilie fossero in condizioni migliori. Perché, vede, il Regno dei Borboni aveva sì un livello basso di imposizione fiscale, e tuttavia la sua economia era stagnante e le sue politiche pubbliche asfittiche. Poche tasse, poca possibilità di sviluppo. Dunque, è del tutto fuorviante pensare che il Mezzogiorno godesse di buona salute. Era il Nord, al contrario, ad avere strade e canali, un’agricoltura più redditizia e moderna, reti urbane solide, commerci più fitti col resto d’Europa. Già nel 1861, il Nord stava meglio del Sud, non c’è molto da aggiungere...
D. Ma la prima ferrovia fu tra Napoli e Portici. E il Sud Italia era famoso per le sue grandi fabbriche tessili.
R. Ma la seta, per dirne una, aveva il suo cuore nell’Italia padana, non nel Sud. E guardi: le famose eccellenze napoletane, dai tessuti di San Leucio alla meccanica di Pietrarsa, che i neoborbonici tirano sempre fuori, alla fine erano realtà isolate all’interno di un contesto che, nel complesso, rimaneva più arretrato di quello settentrionale.
D. Si dice che nel ’700 Napoli fosse la terza capitale europea per ricchezza. Che il suo porto era meta ambita per gli inglesi. Che la sua flotta era tra le più importanti d’Europa...
R. Cose in parte vere. Ma parliamo del Settecento, non dell’Ottocento. E, del resto, anche le glorie settecentesche del regno di Napoli non vanno esagerate.
D. In quei cento anni scarsi, cosa è successo al Sud. Perché si è passati dallo splendore allo sfacelo?
R. Nel 1734 arrivano i Borboni: sono una dinastia ambiziosa e fanno cose che rispecchiano le loro ambizioni, come Capodimonte o la splendida Reggia di Caserta. E non soltanto. I Borboni cercano di fare riforme, di affrontare i problemi del Mezzogiorno, di rafforzare lo stato, di ridimensionare una feudalità fortissima, di promuovere l’agricoltura, la manifattura e i commerci. Ma l’impresa è difficile. Gran parte del territorio è occupato dal pascolo e da un’agricoltura cerealicola estensiva. La borghesia è fragile, le popolazioni sono povere e illetterate. Le riforme settecentesche non riusciranno a modificare in profondità questa situazione.
D. E il Nord Italia?
R. Tra metà del ’700 e metà dell’’800, il Nord cresce dal punto di vista strutturale, legislativo, civile. Si rafforza una borghesia agraria e commerciale. Prendono forma moderne istituzioni finanziarie. I suoi comuni sono amministrati con criterio. In Piemonte, nel primo ’800, il ministro Cavour riesce ad ammodernare il suo paese secondo i criteri del liberalismo europeo. Al Sud, invece, c’è ancora la feudalità. E anche quando essa viene abolita, nel 1806, questo non risolve i problemi delle campagne meridionali. Perché ai feudatari si sostituiscono agrari borghesi, che ne ereditano i peggiori comportamenti e l’abitudine alla sopraffazione, mentre i contadini restano senza terra.
D. Cosa succede esattamente?
R. Alla feudalità si sostituisce un ceto proprietario borghese, i cosiddetti «galantuomini», che assumono i peggiori comportamenti e l’abitudine alla sopraffazione dei vecchi baroni. E che quindi ereditano gli antichi conflitti tra feudatari e contadini sull’uso delle terre demaniali. È anche per la mancata soluzione del problema della terra che poi, dal 1861 al 1865, scoppierà il brigantaggio. Una specie di guerra civile. All’indomani dell’unificazione, cioè, gli antichi conflitti tra proprietari e contadini diventano una vera e propria ribellione al nuovo stato.
D. Perché l’eredità feudale non viene superata?
R. L’abolizione della feudalità non riesce a modificare realmente la situazione delle campagne, perché si limita ad abolire i diritti dei feudatari. Una cosa importante, per carità. Il riconoscimento dell’eguaglianza dei cittadini e la fine della società cetuale. Ma il nocciolo della questione resta irrisolto: la terra. Le aspirazioni dei contadini sulle terre comuni, sui demani, restano deluse, insoddisfatte. La distribuzione delle terre avviene poco e male. Ne approfittano «i galantuomini», non i contadini. E per i contadini, tutto sommato, non cambia molto nel passaggio dai baroni e ai «galantuomini».
D. Il rigurgito al Risorgimento, però, ci fu. E fu forte. Garibaldi con Mille soldati sconfisse in Sicilia un esercito di circa 25 mila uomini. Raccolse il consenso dei siciliani con la promessa delle riforme agrarie. Ma Bronte sanguina ancora...
R. Il successo di Garibaldi in Sicilia si spiega, in buona misura, con l’appoggio che al Generale venne dalle popolazioni isolane, che, per tradizione, erano ferocemente antinapoletane. Ma fu un appoggio di bande armate irregolari, fenomeni di estrema violenza, una specie di grande insorgenza antiborbonica. Com’era già successo nel 1848, la Sicilia rischiò di cadere nell’anarchia. Così, anche Garibaldi, alla fine, ebbe il problema di ristabilire l’ordine pubblico. E quindi Bixio...
D. Resta il fatto che la resistenza all’Unificazione fu forte. E durò anni. Perché?
R. Oltre alle rivendicazioni dei contadini e alle operazioni militari sobillate dalla corte borbonica in esilio, emerse anche una sorta di nazionalismo napoletano, che reagiva alla brusca assimilazione dell’ex regno delle Due Sicilie alla legislazione piemontese. Tutto ciò prese corpo nel brigantaggio e determinò una diffusa ostilità allo stato liberale. Perché, uno stato liberale da più diritti di libertà, ma impone anche doveri. Tasse e servizio militare, anzitutto.
D. Lei però scrive, che finito il brigantaggio, il Sud divenne il più italiano dei territori. E lo è ancora oggi. Perché, dopo tutto quel sangue?
R. Perché, subito dopo quella difficile unificazione, le élite di governo, i governi italiani già nella prima età liberale, riescono a stabilire una specie di patto non scritto con le periferie meridionali.
D. Un patto tacito?
R. Si, un patto molto semplice, ma efficace. Consistente nella distribuzione di risorse materiali da parte del governo italiano ai deputati, ai «galantuomini», ai notabili, agli amministratori locali del Mezzogiorno, in cambio di consenso per il governo. Ovvero di voti.
D. Come fu possibile?
R. Vede, nei parlamenti dell’Italia liberale mancano veri partiti. La rappresentanza si frammenta, piuttosto, a seconda dell’appartenenza territoriale degli eletti. E così c’è il gruppo dei toscani, dei lombardi, dei napoletani ecc. E sono questi eletti che si incaricano di chiedere risorse al centro e di dirottarle ai propri collegi. La conseguenza è che l’attività parlamentare si frammenta in una miriade di micro-provvedimenti, che rispondono agli interessi e alle pressioni dei singoli collegi.
D. E qual è il vantaggio per i governi?
R. Il patto tacito con i deputati e con gli elettori è: noi vi diamo risorse pubbliche e voi ci date il consenso necessario per avere una maggioranza e governare. Non a caso, lungo tutta l’età liberale, ovvero fino al fascismo, il parlamento conta poco, in Italia.
D. Un disastro. O no?
R. Niente affatto. Questo equilibrio tra centro e periferia permette ai governi italiani di guidare il paese, per molti decenni, con un’efficacia che talvolta viene sottovalutata dall’opinione pubblica. Dopo tutto, quei governi contribuiscono in modo decisivo allo straordinario percorso di crescita economica e civile che caratterizza la nostra storia. L’Italia, dal 1861 al 1990, passa da una condizione di paese povero e marginale a essere una delle grandi potenze del mondo. Il merito di questo successo epocale è certamente anche della sua élite di governo. E a questa élite di governo proprio il Mezzogiorno, arretrato e problematico di cui abbiamo parlato, garantisce stabilità politica.
D. Insomma, nella sua visione il Mezzogiorno non sembra una palla al piede del paese.
R. È un pezzo d’Italia di cui non si può fare meno. Non solo per motivi strutturali, come il contributo in imposte, forza lavoro e consumi assicurato al paese. Ma, soprattutto, per motivi politici: perché le periferie meridionali garantiscono al sistema stabilità politica. Vede, all’inizio di questa storia, le élite di governo, i liberali, sono pochi, sparuti, concentrati nelle aree centro-settentrionali. Quindi, se riescono a mettere radici nel paese e ad avere la legittimazione per governare è perché ricevono consenso anche da zone che sono tagliate fuori dallo sviluppo. Il Sud è la palla al piede del Risorgimento che poi diventa, però, la chiave di volta del successo politico, civile ed economico del paese. Sembrerà un paradosso, ma è così.
D. Così si spiega il fatto che, nei primi parlamenti italiani, il Sud sia rappresentato da notabili e possidenti agrari non sempre esemplari.
R. Esatto. E l’elemento di contraddizione sta proprio qui: questi notabili, spesso arretrati, semifeudali e inefficienti, riescono a sopravvivere alla storia (diciamo così), proprio perché ricevono l’appoggio di un ceto di governo, che invece è moderno e capace. Cominciava qui una storia destinata ad arrivare fino ai giorni nostri. Per questo, al Sud, allora come oggi, le popolazioni tendono a votare quel genere di classe dirigente. Perché sono i più bravi a drenare risorse dal centro alle periferie.
D. Quindi il clientelismo di oggi è perpetuazione diretta del feudalesimo?
R. Beh, il rapporto di causa effetto non è così diretto. Diciamo piuttosto che certe pratiche clientelari sono la conseguenza dell’inserimento degli istituti liberali rappresentativi, dal 1861 in poi, su un tessuto strutturalmente povero e problematico, che ha però la chance di diventare il fulcro della stabilità del paese. E, quindi, di ricevere dalle élite di governo le risorse che chiede. I governi hanno interesse a drenare consenso dalle periferie, dando loro in cambio risorse pubbliche. E le popolazioni hanno interesse a farsi pagare il proprio consenso politico. Ma...
D. Ma?
R. Ma questo non è vero nel lungo periodo; perché nel lungo periodo il Sud verrà governato male. Soffrirà sempre per l’inadeguatezza della propria classe dirigente. La qualità delle classi dirigenti locali, nel Mezzogiorno, sarà sempre un problema. Fino a oggi. C’è un gap costante nel tempo tra le amministrazioni locali del Sud e del Nord Italia. Già dall’Ottocento i comuni meridionali sono inefficienti e gestiti da poche e spesso litigiose famiglie. In quei municipi, i notabili esercitano prepotenze, i «gentiluomini» usano le cariche amministrative per fare i loro affari. Ma anche con l’unità d’Italia, la musica non cambia molto. Del resto, il notabilato meridionale riuscirà a sopravvivere anche al fascismo, confluendo tranquillamente nel regime, e influenzerà non poco anche la storia dell’Italia repubblicana, gestendo i nuovi poteri comunali, provinciali e infine, dal 1970, le regioni. E il nocciolo della questione è sempre lo stesso.
D. Leggendo nelle pieghe della storia, date queste premesse, cosa ci aspetta?
R. Negli ultimi 30 anni questo rapporto centro-periferia, questo scambio tra governabilità al centro e risorse pubbliche alle periferie, non funziona più. Perché, con gli anni Ottanta, emerge un processo di meridionalizzazione delle élite di governo e dunque una crescita dell’influenza del Mezzogiorno sugli indirizzi politici dei ministeri. La conseguenza è stata un forte aumento dell’impegno finanziario per il Sud. Al piccolo clientelismo territoriale dell’età liberale è succeduto il grande clientelismo territoriale esploso nel tardo ’900. Ovvero politiche esplicitamente assistenziali, prive ormai delle strategie di sviluppo che avevano caratterizzato gli anni della Cassa per il Mezzogiorno. Soldi e posti di lavoro distribuiti direttamente alle famiglie. Una strategia che ha fatto lievitare in modo decisivo la spesa pubblica. Il Sud ha grandi responsabilità nell’attuale indebitamento pubblico del paese.
D. Questo cosa innesca?
R. La questione settentrionale. Luca Ricolfi ha quantificato in una cinquantina di miliardi l’anno la quantità di risorse che passano dal Nord (sotto forma di tasse) al Sud (sotto forma di spesa pubblica). E il problema è che questo sistema drena risorse da territori produttivi e li porta in territori non produttivi. Guardi, se queste decine di miliardi di trasferimenti producessero ricchezza, saremmo tutti contenti. Ma non la producono. Al contrario, si tratta di risorse che restano ampiamente improduttive e che vengono in buona misura sprecate.
D. L’Italia è destinata a dividersi nuovamente?
R. Il Sud rispetto al Centronord sembra un po’ come la Grecia rispetto all’Europa. Nessuno può pensare a una sua espulsione dall’Italia, come nessuno dovrebbe pensare a un’espulsione della Grecia dall’Europa. Sarebbero due catastrofi. Ma il problema resta e provocherà molti dolori al Sud nei prossimi decenni. Del resto, già oggi se ne vede qualche traccia. Le ragioni meridionali sono in gravissima crisi, perché sono stati tagliati i trasferimenti. Come la Grecia, il Sud dovrà affrontare duri programmi di ridimensionamento delle proprie risorse.
D. Che soluzioni vede?
R. Una, soprattutto: dare allo stato e ai poteri centrali maggiore capacità di controllo sulle istituzioni locali.
D. Un commissariamento?
R. Detta così è forte ma, del resto, è ciò che sta già avvenendo. I presidenti delle regioni meridionali, oggi, hanno le mani legate a causa della disastrosa eredità finanziaria che hanno ricevuto dal passato.
D. Passiamo a un’altra forma di commissariamento strisciante. La convince il processo di unificazione europea così come viene fatto, sotto i colpi dello spread e della finanza globalizzata. Una cessione di sovranità all’Europa, per dirla come il Presidente della Repubblica, per uscire dalla crisi?
R. Il problema è la Germania e il suo ruolo dominante in Europa, dal punto di vista economico e finanziario. Potenzialmente, Berlino oggi è il centro di un impero europeo. Ma forse dovrebbe avere più coscienza di ciò. E, quindi, dovrebbe porsi l’obiettivo di coltivare e far crescere questo impero.
D. A cosa allude?
R. Berlino dovrebbe fare come fecero gli Usa con l’Europa, grazie al piano Marshall. Che ha permesso lo sviluppo economico dell’occidente europeo, con evidente vantaggio degli stessi Stati Uniti. La Germania dovrebbe fare lo stesso: essere più generosa con l’Europa. E naturalmente noi dovremmo garantire ai tedeschi che la sua generosità sarà ben spesa.
D. In sostanza propone lo stesso schema dell’Italia post unitaria: soldi dal centro (Berlino) alle periferie dell’impero (Paesi mediterranei), in cambio di stabilità politica
R. No; non un patto come quello avvenuto in Italia, dove il centro distribuiva risorse senza controllo alla periferia. Ma, una generosità imperiale tedesca, per così dire, che permetta alle periferie dell’impero, dalla Grecia alla Spagna e all’Italia, di uscire dalla crisi finanziaria e di vivere in condizioni sociali e politiche più stabili. Se è vero che Berlino è il centro dell’Europa, non credo le convenga essere circondata da governi deboli, società lacerate, capitali attraversate da manifestazioni di protesta.
D. Moriremo tedeschi?
R. Non possiamo avere tutto. E la prospettiva di essere provincia dell’impero tedesco, certo in condizioni accettabili, è meglio che finire alla deriva in un Mediterraneo impoverito o, peggio, infiammato dalle piazze. Come oggi rischiamo di finire. Del resto, tutto questo dipende molto da Berlino. E i tedeschi, sembra che non abbiano una sufficiente consapevolezza di questa storica opportunità. Si accontentano dei punti dello spread, dei vantaggi immediati della loro supremazia…