Dino Messina, Corriere della Sera 24/10/2012, 24 ottobre 2012
E L’ORSO FERI’ IL LUPO A MORTE
Ha scritto Paul Carell che, in base ai criteri adottati nella Seconda guerra mondiale, il 27 settembre 1942 Stalingrado poteva considerarsi tecnicamente conquistata dalle armate naziste. Invece, quel che appariva come un’evidenza agli uomini della VI Armata guidata da Friedrich Paulus o ai piloti della Luftwaffe che continuavano a sganciare bombe, di notte veniva smentito. Da cantine, cunicoli, fogne della città intitolata al Piccolo Padre spuntavano cittadini armati o soldati sovietici che avevano finto di arretrare. Quella che si combatté attorno e all’interno del centro industriale sul Volga tra l’agosto 1942 e i primi di febbraio 1943 fu la battaglia determinante della Seconda guerra mondiale in Russia: rappresentò non solo un decisivo scacco per la mastodontica operazione Barbarossa (140 divisioni e 3,5 milioni di uomini mobilitati) con cui Hitler nel giugno 1941 aveva deciso di annientare il nemico slavo, l’odiata potenza «ebraico bolscevica», ma, assieme a El Alamein, la vera svolta del conflitto in favore delle potenze alleate.
A questo scontro decisivo dedica un libro, La battaglia di Stalingrado (Longanesi, pagine 160, 11,60), Alfio Caruso, giornalista e storico. In precedenza non solo si è occupato dei 77 soldati italiani che, andati a cercar legna, rimasero intrappolati nello scontro, ma ha scritto, sempre per Longanesi, due saggi di successo dedicati all’armata italiana in Russia, Tutti i vivi all’assalto, e a El Alamein, L’onore d’Italia.
Il racconto di Caruso si divide in due parti: nella prima ci sono i tedeschi all’attacco e i sovietici che subiscono, giacché indietreggiare — almeno nelle prime fasi — non è possibile, per non andare incontro alle conseguenze delle severe disposizioni emanate da Stalin. Nella seconda parte, che inizia nel novembre di 70 anni fa, sono i soldati nazisti, in particolare i 280 mila della VI Armata, nella parte dei perdenti. Vittime due volte: accerchiati da un nemico totalmente rinvigorito da uomini ben comandati, ben coperti, cosa non secondaria nell’inverno russo, e bene armati, grazie soprattutto al carro armato T34; succubi degli ordini di Hitler, che prima promette rifornimenti che non è in grado di mandare, infine, quando è evidente che tutto è perduto, ordina ai suoi di resistere fino all’ultima munizione. Il risultato è un doppio massacro: dopo sette mesi di battaglia, dei 500 mila abitanti di Stalingrado, ridotta in macerie al 99 per cento, ne rimanevano soltanto 1.500; i soldati sovietici caduti furono circa mezzo milione. Sull’altro versante si contarono 250 mila morti e dei 108 mila prigionieri almeno la metà morì di fame e di freddo.
Quella che doveva essere la facile conquista di una tappa intermedia per arrivare alla conquista dei pozzi petroliferi del Caucaso (sotto il controllo tedesco erano rimasti soltanto i giacimenti in Romania) si risolse in un’ecatombe. E una battaglia simbolo in cui si dispiegò in tutta la sua ferocia lo scontro tra il lupo nazista e l’orso sovietico. Fu una guerra sporca sin nelle intenzioni: Hitler, lanciando l’offensiva Barbarossa, aveva parlato di «subumana razza slava» e non fu un caso che la maggior parte dei prigionieri sovietici catturati dai nazisti, il 60 per cento, non sopravvissero, contro una percentuale di poco superiore a un terzo dei prigionieri britannici e americani. Alfio Caruso racconta con sapienza questa ferocia facendo ricorso ora ai diari dei sopravvissuti, dell’una e dell’altra parte, ora alle voci della letteratura. Da Ernst Jünger, di stanza in quei mesi a Parigi, che ricordando i commilitoni in Russia citava la Bibbia e la maledizione di Mosè, «il cielo che sta sopra il tuo capo sarà di bronzo e la terra sotto i tuoi piedi di ferro», alla poetessa Anna Achmatova, «Io odio», o allo scrittore Ilja Ehrenburg, che su «Stella Rossa» lanciò l’appello: «Non contate i giorni, non contate i chilometri. Contate solo il numero di tedeschi che avete ucciso». Parole che ben testimoniano il successo della mobilitazione nazionale capeggiata da Stalin.
Naturalmente l’ossatura del libro è costituita da gesta militari, manovre, aggiramenti, assalti, decisioni prese e mancate, in cui quel che conta è soprattutto il fattore umano. Lo stato d’animo della truppa e dei comandanti. Caruso non manca di sottolineare la totale sudditanza psicologica di Paulus verso Hitler, la doppiezza del suo vice Arthur Schmidt che gli fu messo accanto per controllarlo, il distacco dalla realtà del comandante dell’aviazione Hermann Göring, pronto a farneticare in un discorso radiofonico nel gennaio 1943 di russi allo stremo delle forze, quando si stava verificando proprio il contrario. Dall’altro lato, l’iniziale impreparazione cui Stalin rimediò con la scaltrezza e la ferocia delle disposizioni imposte anche alla popolazione civile, l’abilità del capo di Stato maggiore, Georgij ÿukov, lo spirito di sacrificio di cui diedero prova non solo soldati e abitanti di Stalingrado, ma anche le élite, dal generale Andrej Eremenko al commissario del popolo Nikita Krusciov, futuro leader dell’Urss, che nel 1956 avrebbe denunciato i crimini di Stalin.
Dino Messina