Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 24/10/2012, 24 ottobre 2012
IL TESORO DELLA ‘NDRANGHETA? NASCOSTO NEGLI ALBERGHI STELLATI —
La ricchezza prodotta dalla ’ndrangheta si può nascondere ovunque. Anche in un grande albergo, in una discoteca o in un camping, oltre che in appartamenti e altri immobili. E non si tratta solo di soldi di boss e affiliati alle ’ndrine, ma anche dei prestanome che si sono emancipati e — sempre grazie ai rapporti con la criminalità calabrese — hanno accumulato beni a loro disposizione. E’ la ricchezza della cosiddetta «zona grigia», il territorio oscuro in cui s’incontrano mafia, affari e politica, di cui ieri è stato illuminato un nuovo antro.
Due noti imprenditori reggini si sono visti sequestrare un patrimonio del valore di circa 230 milioni di euro, su richiesta della Procura antimafia di Reggio Calabria. Pietro Siclari è un costruttore di 65 anni, e l’elenco dei beni che gli sono stati sottratti dagli investigatori della Dia, dei carabinieri e della guardia di finanza si compone di 94 voci; per Pasquale Rappoccio invece, 58 anni, il sequestro si ferma a 14 voci: quasi tutte quote societarie tra cui quelle della Medinex, la ditta fornitrice di materiale sanitario già coinvolta nella vicenda della Asl di Locri in cui di recente condannata (insieme a Rappoccio) Maria Grazia Laganà, la deputata del Pd vedova del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, assassinato nel 2005.
Siclari e Rappoccio sono entrambi in carcere per altre accuse connesse alle loro attività che, secondo l’accusa, hanno sempre beneficiato di legami privilegiati con la ’ndrangheta. Siclari, ad esempio, è definito dal giudice un «imprenditore astuto e senza scrupoli, che ha basato la propria fortuna sullo sfruttamento di stretti vincoli con personaggi di spicco di diverse consorterie mafiose» di Reggio e provincia. I pentiti degli anni Novanta l’hanno descritto come «testa di legno» a disposizione dei clan De Stefano e Libri, altre indagini l’hanno collocato vicino agli Alvaro e ai Condello-Tegano, in una «fitta rete di relazioni criminali in cui il Siclari si destreggia con lucida abilità».
In una conversazione registrata dai carabinieri nel 2000, un collega intercettato ne parlava così: «Gli hanno presentato gente della montagna, è stato capace di fargli il compare d’anello, di fargli questo e quello... è entrato nel cuore di Mico Alvaro, è entrato nel cuore di tanta gente della montagna, e lui è a posto». Mico Alvaro è uno dei boss della Piana di Gioia Tauro che ha passato lo scettro al figlio Cosimo, arrestato un anno fa. A Siclari sono state sequestrate quote societarie di due grandi alberghi sul mare dello Stretto, il Grand Hotel de la Ville e l’Hotel Plaza di Villa San Giovanni, oltre che di un noto villaggio turistico.
In alcuni investimenti Siclari è socio di Rappoccio, attivo nel settore degli appalti della sanità. Attraverso relazioni con la cosca dei Tegano-Condello, accusa il giudice, ma anche grazie al «costante rapporto illecito con funzionari pubblici che, sia perché corrotti sia perché infedeli, si prestavano a strumentalizzare la propria funzione al fine di agevolarne gli interessi imprenditoriali». In un’intercettazione del 2002 fu lo stesso Rappoccio a definire la «normalità» del suo modo di avvicinare il direttore di una Asl: «All’inizio uno va a parlare a dirgli... c’è questa cosa... ha bisogno di qualcosa lei, non capisci se vuole un viaggio, un congresso, una situazione, è normale no?, come tipo di lavoro, senza bisogno... di dargli la mazzetta, la tangente o tante altre cose».
Tra i beni sottratti all’imprenditore ci sono pure le quote di una squadra di basket, a dimostrazione — secondo l’accusa — della varietà degli interessi in cui ha disseminato e occultato i propri guadagni. «Questa nuova operazione dimostra che gli imprenditori collusi da un lato consentono alla ’ndrangheta di arricchirsi, ma dall’altro si arricchiscono essi stessi, contribuendo a inquinare il sistema», spiega il procuratore aggiunto di Reggio Michele Prestipino, che ha coordinato questa indagine che segue quelle sulle società partecipate Multiservizi (all’origine dello scioglimento del comune di Reggio deciso dal governo poche settimane fa) e Leonia, l’azienda per la gestione dei rifiuti considerata dai magistrati uno degli strumenti «mediante il quale la criminalità organizzata ha infiltrato, (e sarebbe meglio, forse, dire l’ha fatta propria) l’economia cittadina». Colpire la «zona grigia» nelle sue fortune, aggiunge Prestipino, «significa dimostrare che collaborare con la ’ndrangheta alla lunga non conviene, con l’obiettivo di restituire respiro e spazio all’imprenditoria onesta soffocata da quella collusa».
Giovanni Bianconi