Paolo Bianchi, Libero 20/10/2012, 20 ottobre 2012
«COSÌ HO RISOLTO TUTTE LE ROGNE DI KUBRICK»
[D’Alessandro, chauffeur del regista, racconta in un libro i suoi 30 anni al servizio di Stanley, tra buste da imbucare, giardini da sistemare e tubi da aggiustare. Restandogli sempre fedele] –
Stanley Kubrick non sarebbe piaciuto a Susanna Camusso. Il regista americano, andato a vivere e a produrre capolavori nei dintorni di Londra, pretendeva dai suoi collaboratori un impegno, come si suol dire adesso, 24/7. Grande artigiano a capo di imprese dai costi industriali, esigeva da sé e dagli altri il massimo. Così ce lo riporta Emilio D’Alessandro, di origini italiane (di Cassino), che fu, dall’inizio degli anni Settanta e fino alla morte del regista nel 1999, prima suo autista e poi suo assistente tuttofare e fidatissimo. Uno di famiglia, uno con un buon carattere e tanta voglia di lavorare. Un uomo che sviluppò una forte empatia nei confronti del geniale cineasta. Se è vero il proverbio per cui «nessun uomo è troppo grande per il proprio maggiordomo», il pregio del racconto di D’Alessandro è proprio nell’aver saputo cogliere la dimensione umana di Kubrick al di là delle sue stranezze, delle sue leggendarie diffidenze e ipocondrie che mettevano molti in agitazione.
Tutto viene raccontato con abbondanza di dettagli in Stanley Kubrick eme, scritto con Filippo Ulivieri (Il Saggiatore, pp. 354, euro 17, con foto a colori e in bianco e nero), libro che ha per sottotitolo «Trent’anni accanto a lui. Rivelazioni e cronache inedite dell’assistente personale di un genio».
È una questione di ordine. Nella residenza di Abbott Mead e più tardi in quella, antica e gigantesca, di Childwickbury, e nei vicini studi cinematografici, nei set ricercati meticolosamente per la campagna irlandese (Barry Lyndon) o ricostruiti nei dettagli a costi faraonici (Shining), insomma in tutti gli spazi di lavoro occupati dalla tracimante personalità del regista, doveva regnare un particolare tipo di ordine, da lui cocciutamente perseguito e organizzato in vista della perfezione del risultato finale.
«He’s the governor», è quello che comanda tutto, dicevano di lui. E Kubrick aveva la fissazione del controllo assoluto del proprio lavoro. «L’idea di controllo per Stanley non consisteva in una persona che tiene d’occhio qualcosa, ma in un controllore che viene controllato da un altro controllore, e così via», commenta Emilio. Un’idea che ricorda metodi di contribuì a una certa cattiva reputazione del regista. I risultati finali però brillavano, e anche il consenso del pubblico, tanto che i produttori preferivano lasciarlo fare. Era normale che per un film partito con un piano di produzione di quattro mesi ci volessero due anni di lavoro matto e disperatissimo.
Di gran parte delle operazioni “sporche” si occupava gente come Emilio D’Alessandro, ex pilota di auto da corsa, che non si fermava di fronte a nessuna porta chiusa. Portare buste, ritirare buste, accompagnare il personale a Londra, avanti e indietro, andare a prendere gli attori all’aeroporto, tenere in ordine il parco macchine, compresi i mezzi usati per le riprese, rispondere al telefono, ritirare i fax, scarrozzare Jack Nicholson, corrompere i funzionari utili, mettere ordine negli uffici, aggiustare le tubature, portare il copione a Tom Cruise, tenere a bada decine di cani e gatti e altri animali domestici verso i quali il regista aveva attenzioni ossessive, sistemare il giardino e in generale rimediare ai guasti di un sistema che coinvolgeva centinaia di persone e che rischiava di incepparsi in ogni momento era il lavoro di Emilio.
Uomo semplice e per nulla intellettuale, lui non si metteva in relazione con il regista, l’artista, del quale non aveva neppure mai visto un’opera né desiderava vederne, ma con l’uomo pratico e artigiano, quello afflitto dalle volgari incombenze di ogni giorno. Ha detto la scrittrice scozzese Sara Maitland: «Stanley era assolutamente inconsapevole delle frustrazioni che affliggono la vita del ceto medio». È vero, ma non perché appartenesse a un ceto privilegiato: perché aveva intorno alcuni fedelissimi come Emilio che gli risolvevano le rogne quotidiane. E sapendolo, li teneva ben stretti. Staccarsi da lui, una volta conquistata la sua fiducia, era praticamente impossibile. L’affetto e la reverenza di Emilio per l’illustre datore di lavoro non vengono mai meno, e la parola “tirannico” non compare mai, anche se il lettore attento la percepisce. Ma certo, piuttosto che a tanti tirannelli, è un privilegio potersi accompagnare a un despota dall’intelligenza diabolica e dalla sensibilità artistica di un Kubrick. Perciò l’orgoglio di Emilio D’Alessandro è legittimo. A modo suo, la storia del cinema l’ha fatta anche lui.