Alberto Orioli, Il Sole 24 Ore 23/10/2012, 23 ottobre 2012
I NUMERI DELLA VITA E DELLA MORTE
Si alzano le mani di fronte ai dati della morte. Soprattutto se prende le sembianze dei tumori neonatali. Non c’è statistica, non c’è soglia, non c’è serie storica. Solo pietà. Ma non bisogna alzare le mani, impotenti, sui numeri della vita. E la più grande acciaieria d’Europa è vita, è sviluppo, è ricchezza.Saranno i tecnici a disquisire se il periodo 2003-2009 preso in esame dalla ricerca riproduce le situazioni ambientali esistenti oggi o se nel frattempo gli interventi già realizzati hanno indotto miglioramenti. O, peggio, se il quadro sia, in questi anni, peggiorato. Resta, per l’opinone pubblica italiana e non solo tarantina o pugliese, il tema di fondo: bisogna chiudere? Bisogna abbandonare la produzione siderurgia di Taranto, 15mila occupati? «No, bisogna sconfiggere il cancro senza sconfiggere il lavoro» resta comunque la risposta più saggia, sia per chi abbia a cuore l’interesse ambientale, sia per chi non voglia perdere l’opportunità manifatturiera. Anche perchè Taranto significa Cornigliano, Novi Ligure, Racconigi in una Italia che, tra l’altro, sta perdendo le sue roccaforti ferrose, da Piombino a Terni, un tempo fucine della rivoluzione industriale del boom economico. Se il dibattito viene spogliato della carica ideologica e divisiva che ha assunto con il passare delle settimane, resta solo la necessità che uno sforzo eccezionale – locale, regionale, nazionale ed europeo – porti quel sito ad adattare i propri standard di produzione alle condizioni di eco-sostenibilità. Non è un rabbioso ordine di chiusura immediata che può salvare il compromesso tragico tra difesa della vita e difesa del lavoro; non è di consolazione l’utopia che al posto di quell’acciaio si possano immaginare, nell’immediato, attività terziarie o turistiche che compensino la quantità di lavoratori oggi impegnati in una delle più grandi città-d’acciaio d’Europa. Nè è sensata l’idea di chi, con cinismo, propone di ridurre la produzione per delocalizzarne la gran parte (per esportare quelle morti che vorremmo evitare da noi?). Il compromesso è scritto nell’Autorizzazione integrata ambientale deciso dal ministro Corrado Clini. Per l’azienda è un programma impegnativo, prova ne sia la richiesta di modificare le quote di produzione considerate troppo basse. Ma la riconversione a tappe forzate dell’impianto diventato dei Riva e parzialmente riadattato, dopo aver inquinato per decenni come fabbrica di Stato, deve passare da quei vincoli: l’Ilva contesta l’anticipo di un anno (al 2014) della chiusura dell’altoforno 5, cuore strategico dell’impianto; chiede distanze di rispetto inferiori a quelle stabilite nell’Aia per il posizionamento dei parchi minerali, pena la perdita di un intero sito di stoccaggio; ritiene troppo brevi i due mesi per l’ok ai lavori e i tre anni per l’esecuzione delle nuove coperture anti-polveri; considera difficile avviare entro tre mesi i lavori per costruire edifici chiusi per lo staccaggio dei materiali pulvirulenti. Insomma, quell’Aia non è una passeggiata per l’impresa. Ma è uno sforzo supplementare ineludibile. Altrimenti resta l’alternativa dell’abbandono e delle desertificazione industriale o cercata o indotta. Ma non sarebbe la soluzione giusta. La vera sfida, anche per far invertire il corso di quei terrificanti risultati clinici, è trasformare il sito siderurgico nel primo impianto riconvertito a produzioni eco-compatibili. Un programma che coinvolga tutti in uno sforzo organizzativo e finanziario corale, dalla città all’Europa. Sarà il modo per garantire il lavoro e per sconfiggere quelle morti inaccettabili.