Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 23/10/2012, 23 ottobre 2012
CONTINI E TALLONE TRA FORMA E VERITÀ
«Io i miei pochi momenti di consolazione li trovo la sera contemplando nella mia libreria quei pochi esemplari di perfezione, come certi Bodoni fra i meno appariscenti e i più segreti. Ora, nella categoria della bellezza formosa, ho un individuo nuovo, e fra i più cospicui che si potessero immaginare». Questo passo, tratto da una lettera del 9 settembre 1946 siglata da Gianfranco Contini, inaugura bene quelli che saranno i rapporti di amicizia e di collaborazione tra il filologo e l’editore e stampatore bergamasco Alberto Tallone (1898-1968). Così Contini ringraziava per l’omaggio di una pregiata edizione dell’Ange di Valéry appena ricevuta. Per rendere ancora meglio la considerazione che lo studioso attribuiva all’arte tipografica, bisognerà evocare una nota in cui la professione dell’amico Madino (così era chiamato Alberto in famiglia) veniva riassunta nel talento di armonizzare «la soddisfazione della forma con gli obblighi del vero». Del resto, la sua bibliomania Contini la confessò a Ludovica Ripa di Meana rivelando che per non intaccarne la perfezione era abituato a conservare intonsi i libri, leggendoli senza tagliare le pagine. Passione che peraltro condivideva con molti illustri personaggi, come il presidente Luigi Einaudi, anch’egli fedele collezionista dei volumi Tallone.
Ora, una mostra documentaria all’Università Cattolica di Milano e un catalogo a cura di Roberto Cicala e Maria Villano, intitolato appunto Il bello e il vero, ricostruiscono un sodalizio che diede il primo frutto nel 1949 con la pubblicazione, a Parigi (dove la casa editrice fu fondata nel 1939 prima di trasferirsi ad Alpignano), del Canzoniere petrarchesco a cura di Contini: un’edizione rimasta punto di riferimento per la filologia ed esempio tra i massimi sul piano della composizione. Seguono le preziose Rime di Galeazzo di Tarsia (tirate nel 1951 in 350 copie e curate da Daniele Ponchiroli con Introduzione di Contini), Il Tesoretto e il Favolello di Brunetto Latini (1967), le Rime di Cavalcanti (1968) e altre preziosità fino a I Nomi degli Anonimi pubblicato nel 1989 a pochi mesi dalla morte e tratto da un elzeviro apparso nell’inserto «Cultura» del «Corriere della Sera»: una sorta di «testamento», secondo la definizione della moglie Margaret. Ma quello che Ungaretti, recensendolo, definì il «Petrarca monumentale» (e che poi sarebbe stato il «Petrarcone») offrirà l’occasione a Giulio Bollati per «agganciare» il filologo alla casa editrice Einaudi diventando molti anni dopo, presso l’editore torinese, un volume della «Nuova Universale» con il commento dello stesso ex talloniano Ponchiroli. «Una scommessa vinta», per il grande filologo.
In una lettera inedita del ’52 Contini, impegnatissimo in lavori colossali (tra cui i ricciardiani Poeti del Duecento), espone all’amico il progetto di una intera «collezione di testi rari (poco editi e male editi)», idea accolta subito con entusiasmo. Primo titolo previsto, i Carmina petrarcheschi curati da Giuseppe Billanovich. Ma la «Biblioteca Rara Tallone» non vedrà la luce: si tratta di un progetto che richiede un impegno industriale al quale Alberto Tallone, editore di tirature limitate (200-300 esemplari), non può far fronte. Dopo qualche mese Contini riceve da Giulio Einaudi la proposta di dirigere la «Nuova Raccolta di classici italiani annotati», fondata da Santorre Debenedetti. Lì, «cortesemente colluttando con Einaudi», il filologo farà confluire testi che aveva inserito nel piano della «Biblioteca Rara Tallone». Non c’è bisogno di essere nostalgici per immaginare che con l’editoria digitale a Contini rimarrebbero ben pochi motivi di consolazione: poca «soddisfazione della forma» e pochissimi «obblighi del vero».
Paolo Di Stefano