Il Sole 24 Ore 22/10/2012, 22 ottobre 2012
IL 13% DEGLI ONOREVOLI È FINITO DI FRONTE AI MAGISTRATI
Ogni otto parlamentari, uno ha avuto a che fare con la giustizia. A vario titolo: perché è risultato o risulta tuttora indagato o perché è arrivato ad affrontare il processo uscendone condannato. I reati sono diversi: dall’abuso di ufficio all’abusivismo edilizio, dalla discriminazione razziale alla corruzione aggravata, dal falso in bilancio all’associazione a delinquere.
Una serie di illeciti in cui sono inciampati non meno di 120 tra deputati e senatori. Ovvero, il 13% del Parlamento. Il numero non è determinabile con scientifica esattezza perché né la Camera né il Senato tengono il conto degli onorevoli che finiscono sul registro degli indagati. Le Camere, infatti, vengono interpellate dai magistrati solo quando si tratta di ottenere l’autorizzazione a procedere all’arresto di un parlamentare o comunque alla restrizione della sua libertà o quando deve essere sottoposto a perquisizione personale o intercettazione. Ci si deve, dunque, affidare da una parte agli atti parlamentari (almeno per quei casi - ma sono un numero minore - che richiedono il coinvolgimento delle Camere) e dall’altro alla ricerca d’archivio.
In ogni caso, è d’obbligo una precisazione: indagato non significa colpevole. L’indagine dell’autorità giudiziaria può, infatti, concludersi con un nulla di fatto. Detto questo, è anche vero che un numero così consistente di onorevoli che finiscono tra le maglie della giustizia non può essere solo un fatto accidentale. Pur depurando il dato dalle eventuali archiviazioni (non tante, per la verità), resta il fatto che il rapporto di un indagato ogni otto parlamentari è il risultato della malapolitica elevata a sistema. Come confermano, d’altra parte, gli scandali quotidiani, che coinvolgono non solo il Parlamento, ma pure le amministrazioni locali (si veda anche l’articolo sopra).
La presenza di condannati – dai, per citarne solo alcuni, pidiellini Carlo Vizzini, Massimo Maria Berruti, Renato Farina, passando per l’ex leader leghista Umberto Bossi, continuando per gli esponenti di Popolo e territorio Domenico Scilipoti e Giampiero Catone – non fa che ribadire la necessità per i partiti di rinnovamento.
Bisogno che è trasversale. Perché se è vero che il numero maggiore di parlamentari che hanno avuto o hanno tuttora problemi con la giustizia si trova nel Pdl, che ne annovera una sessantina, anche gli altri partiti non possono dirsi indenni da macchie. Il Pd, per esempio, tra Camera e Senato ha almeno quindici onorevoli che hanno avuto a che fare con l’autorità giudiziaria, mentre sono nove i deputati e i senatori del Carroccio su cui i magistrati hanno aperto un fascicolo. E anche gruppi meno numerosi, come l’Udc, Futuro e libertà o Popolo e territorio, hanno comunque la loro pattuglia di indagati (quando non condannati): nove nel primo caso, sei e cinque nel secondo e nel terzo.
Il caso più emblematico di guai con la giustizia rimane quello dell’ex premier, Silvio Berlusconi, coinvolto in una serie di processi, alcuni dei quali (quello per il caso Ruby, dove è imputato di concussione e prostituzione minorile) è affare di questi giorni. Il Cavaliere finora non è mai stato condannato, anche perché ha potuto incassare, oltre alle sentenze di assoluzione, anche quelle di prescrizione, alcune delle quali grazie a leggi varate sotto il suo Governo e ritenute ad personam.
C’è poi chi si è fatto scudo dell’immunità parlamentare e ha evitato l’arresto. È successo per il deputato Nicola Cosentino e il senatore Sergio De Gregorio, entrambi Pdl, il primo indagato per i rapporti con il clan del Casalesi, il secondo per associazione a delinquere: il Parlamento ha detto «no» alle richieste dei magistrati. Non così per Alfonso Papa (sempre Pdl), nei cui confronti la Camera ha autorizzato l’arresto per le vicende legate alla P4, arresto poi annullato dalla Cassazione.