Francesco Daveri, Corriere della Sera 22/10/2012, 22 ottobre 2012
I DUE GIORNI CHE CAMBIERANNO IL MONDO
Il prossimo 6 novembre tutto il mondo guarderà con interesse ed emozione all’esito delle elezioni presidenziali americane. Dei temi che stanno dominando il dibattito pre-elettorale tra il presidente Barack Obama e lo sfidante repubblicano Mitt Romney sappiamo già quasi tutto. Obama rischia la non rielezione perché non è riuscito a far scendere la quota dei senza lavoro — oggi ancora all’8 per cento, sia pure in calo da qualche mese — ai livelli a cui gli elettori americani erano abituati negli anni che hanno preceduto la globalizzazione. Di questo lo accusa Romney che, per rilanciare l’economia, propone la solita ricetta repubblicana: meno tasse, anche per i ricchi. Solo con tasse più basse, sostiene Romney, l’America potrà riguadagnare la competitività perduta e ricominciare a creare posti di lavoro. La sfida in America è su come rilanciare la crescita e il sogno americano.
Più o meno negli stessi giorni di novembre sull’altra sponda dell’Oceano Pacifico avverrà un altro evento epocale di cui però non sappiamo quasi niente. L’8 novembre l’attuale presidente e segretario generale del Partito comunista cinese Hu Jintao e il suo primo ministro Wen Jiabao si faranno da parte per lasciare il posto all’attuale vice presidente Xi Jinping e all’attuale vicepremier Li Keqiang. Del nuovo presidente Xi non si sa molto se non che la maggior parte della sua famiglia, compreso il suo unico figlio e la sua prima moglie, vivono all’estero. Sull’identità e anche sul numero (nove? sette?) degli altri membri del futuro politburo si sa molto poco. È comunque una transizione politica preparata da tempo e che in apparenza avviene all’insegna della continuità. In Cina, però, il passaggio del potere da un gruppo di governanti a quello successivo non avviene tutti i giorni, ma ogni dieci anni: i nuovi leader del 2012 rimarranno in carica fino al 2022. Nessun altro leader occidentale oggi in carica ha di fronte a sé un orizzonte temporale tanto lungo. Per questo capire le conseguenze dei cambiamenti politici cinesi è oggi diventato tanto urgente quanto capire dove andrà l’America.
La domanda delle domande quando arriva un nuovo presidente cinese è sempre la stessa: quella che viene sarà la volta buona per una più decisa espansione delle libertà politiche in Cina? Nel 2002, l’arrivo di Hu portava con sé la speranza che, oltre alle libertà economiche, fosse venuto il momento dell’accelerazione delle riforme politiche in senso liberale. Nulla di tutto ciò è avvenuto in questi dieci anni. Come raccontato a Time da Zhang Yihe, una popolare scrittrice cinese figlia di un ex-dirigente del partito epurato, «invece di accrescere le libertà, sono aumentati i controlli politici». E non di poco: su esplicita ammissione del governo cinese, gli apparati di sicurezza sono arrivati a ricevere l’enorme cifra di 110 miliardi di dollari, pari all’1,4 per cento del Pil cinese (gli Usa, con un Pil doppio di quello cinese, spendono poco meno di 50 miliardi per l’Intelligence non militare).
Sul fronte delle riforme politiche, la Cina di Hu ha insomma completamente deluso le speranze degli occidentali, quelli che — nelle parole del futuro presidente Xi — «con la loro pancia piena e non avendo niente di meglio da fare ci puntano il dito addosso». Il giro di vite in senso repressivo non è stato del tutto inatteso, tuttavia. La diffusione di Internet ha infatti accresciuto anziché diminuire la necessità di controlli capillari da parte del potere politico, spaventato dall’instabilità indotta dalla Primavera araba del 2011. E poi c’è stata la diffusione del malcontento sociale. La spettacolare crescita economica cinese degli ultimi dieci anni è stata molto diseguale, esattamente come in Occidente. Sono decisamente diminuiti i poveri, ma è anche aumentata molto la distanza tra chi beneficia del capitalismo di Stato cinese e chi rimane ai margini del sistema. Se poi a questo si aggiunge la dilagante corruzione della classe politica locale che giorno per giorno continua a farsi guidare dal vecchio detto «le montagne sono alte e l’imperatore è lontano», il quadro è completo. Con il malcontento sociale che serpeggia le esigenze di stabilità si sono fatte sentire molto più di quelle di democrazia. Non è quindi sorprendente che la transizione politica cinese di oggi avvenga con chiari di luna molto diversi rispetto a dieci anni fa.
In tre soli giorni, all’inizio di novembre, si deciderà molto dei destini del mondo dei prossimi anni. La casuale coincidenza temporale dei due eventi serve a ricordarci che, anche se in America si vota e si vince su chi può promettere un futuro migliore al popolo americano, le promesse elettorali dei candidati americani saranno più facilmente attuate solo se i futuri leader cinesi sapranno coniugare stabilità e democrazia nel loro Paese.
Francesco Daveri