Giulio Giorello, Corriere della Sera 22/10/2012, 22 ottobre 2012
DOVE CI SOSPINGE L’UMANA CURIOSITÀ
«Costruire Stati e dinastie, dar vita a stirpi, propagare credi, accumulare fortune e consumare il superfluo» son tutte imprese che «appaiono futili al paragone con i traguardi della scienza». Così l’economista Thorstein Veblen (1857-1929, nella foto) definiva Il posto della scienza nella civiltà moderna, articolo comparso nel 1906 in un’autorevole rivista di sociologia.
La modernità ha dato prova di insolita capacità nella comprensione del nostro ambiente, «in modo impersonale e spassionato»; analogamente, la tecnologia ha saputo procedere «in base a una sequenza impersonale e non in base ai termini dettati dalla natura umana o da interventi sovrannaturali». Gli scienziati, per loro conto, non si preoccupano di esigenze pratiche; anzi, «non ambiscono né possono ambire ai miglioramenti tecnologici». La loro indagine è fine a se stessa «come quella dei creatori dei miti» presso i cosiddetti selvaggi. Ma chi fa scienza «ha imparato a pensare nei termini in cui agiscono i procedimenti della tecnica».
Come è stata possibile questa convergenza, così importante per la nostra esistenza quotidiana? Due anni dopo (1908) Veblen delineava L’evoluzione del punto di vista scientifico, passando da Hegel e Marx a Darwin. Proprio quest’ultimo aveva cambiato l’immagine della scienza e aveva anche fornito una quantità di spunti per capire come fosse emersa la scienza stessa. Prima di Darwin il sapere mirava «a definire e classificare»; dopo Darwin, l’indagine scientifica si era invece modellata sullo studio di processi apparentemente senza scopo e termini ultimi.
Nato nel Wisconsin da una famiglia norvegese, Veblen, già celebre per la sua Teoria della classe agiata (1899), uomo del Nord industriale ma attratto dal Sud «cavalleresco», sentiva la cerniera di due mondi ostili, che si erano scontrati nella Guerra civile americana (1861-1865). I due saggi, di cui sopra si è detto, appaiono oggi riuniti in edizione italiana sotto il titolo Il posto della scienza (Bollati Boringhieri, pp. 128, 11,50, traduzione di Barbara Del Mercato). Se scrivesse ai nostri giorni, Veblen sarebbe certo colpito dalle conquiste dell’informatica più che dai macchinari dell’industria pesante. Ma ancora riscontrerebbe il nodo di necessità e contingenza che scandisce la storia della natura e dell’uomo. E ne ribadirebbe l’aspetto globalmente privo di finalità: Dio non si intromette nelle dinamiche indagate dalla scienza, ma nemmeno i sentimenti dell’uomo possono distorcere la crescita tecnologica.
Molti possono sentirsi insoddisfatti della razionalità di «uno scettico pedante nel suo laboratorio» o di un ingegnere che non è altro che «un regolo calcolatore vivente». L’essere umano ha via via provato sulla propria pelle «una biforcazione» tra la conoscenza dei fatti, che gli ha finora permesso di salvarsi nella lotta darwiniana, e quel che resta di quelle interpretazioni «drammatiche» che hanno costituito la linfa di miti, leggende, religioni, credenze morali, eccetera, con cui nei secoli si è fatto appello agli dei e agli eroi per dare un senso all’universo. Entrambi gli atteggiamenti, in realtà, sono figli dell’umana curiosità; ma la tensione tra di loro ha attraversato, talvolta con esiti tragici, gran parte delle umane vicende, e in particolare quelle del Novecento, il secolo insieme troppo «breve» e terribilmente «lungo».
Nell’introduzione al volume, Francesca Lidia Viano e Carlo Augusto Viano opportunamente richiamano gli effetti della grande biforcazione anche nel nostro Paese, quando uomini di scienza ebbero il coraggio «di far sentire la propria voce al di fuori delle rispettive specialità, nella costruzione della cultura nazionale e nella progettazione della scuola moderna»; ma si trovarono di fronte alla reazione idealistica di Croce e Gentile.
Non fu che un caso tra i tanti, quando il presunto sapere «filosofico» scelse di esprimere «il rimpianto per i miti uccisi nei laboratori», una mossa che sostanzialmente significa fuga dalle responsabilità che emergono dalla nostra stessa storia evolutiva.
Giulio Giorello