Enrico Sisti, la Repubblica 22/10/2012, 22 ottobre 2012
LA LEZIONE DEI RANGERS
«Fifty thousand can’t be wrong». A Glasgow ci sono 50 mila persone che non possono aver torto. Urlano, smaniano, soffrono, si emozionano, cantano, prendono autobus che conducono ad Ibrox, riempiono la metropolitana partendo con largo anticipo dalla fermata di St. Enoch dopo aver mandato qualche accidenti allo store del Celtic di Argyle Street: «Ma perché la birra che appare sulle nostre magliette (la Tennent’s,
ndr)
è la stessa che appare su quelle del Celtic? Non la capirò mai questa cosa...». L’azienda non si limita a curare i propri bilanci ma prova anche ad avvicinare i marchi calcistici. Ovviamente una cosa le riesce e l’altra no.
La lingua blu che marcia verso ovest è entusiasta. Fa già abbastanza freddo. Comprano opuscoli, sciarpe, magliette col volto di Superally, Ally McCoist, il mister della speranza, ex bandiera, ex grande “gers”, un centravanti vecchia maniera.
Qualcuno ancora si commuove davanti alle foto dei vecchi campioni: gettonati Morton e Hateley, un po’ dimenticato Gattuso. Di Bobby Brown, portiere leggendario, si celebrano gli 89 anni. L’autobiografia di Harold Davis, difensore di fine anni ‘50, mescola il dramma della guerra di Corea con la passione per il calcio e scrive: «Parlavamo di Rangers al fronte: ci riscaldava». Era nel Reggimento Black Watch. I tifosi sui 35 anni si portano dietro figli, padri, nonni, li hanno appena convinti (ammesso che ce ne fosse bisogno) che quando si ama una squadra non c’è categoria che tenga: «L’Ibrox Park è più grande di Glasgow», recita il paradosso.
Il calcio è come il sangue. Anzi è sangue. Se scorre sei vivo.
Come sempre, quando i Rangers giocano in casa, l’illusione è forte, l’impatto visivo inganna, il conto dei biglietti pure. Sabato c’erano 49.463 spettatori. I ragazzi di Ally McCoist si sono sdebitati conquistando il primo posto in classifica. Ma in terza divisione, quattro scalini più in basso della Premier League. Una marea di gente per una partita di fascia bassa, con giocatori di fascia bassa, arbitri di fascia bassa, gesti tecnici di fascia bassa (nel 2002/3 la Fiorentina-Florentia in C/2 ebbe una media di 24 mila spettatori). È il mistero e la bellezza del pallone. I dirigenti dei Rangers si comportano come se dovessero ospitare il Barcellona (che invece domani giocherà contro il Celtic...). Hanno richieste di interviste da ogni parte del mondo: persino dalla Bulgaria e dalla Macedonia. Ma la realtà è ben diversa: debbono confrontarsi con squadre di dilettanti, mondi invisibili, minuscoli organigrammi, organizzazioni casarecce, gente che ha tre o quattro palloni da gara, si scalda con i “fratini” sporchi e porta sugli
spalti, o su panche alla buona, 900 persone scarse, sempre che non piova. I Rangers sono precipitati in quest’inferno dopo anni di amministrazione irresponsabile e suicida, tenuta nascosta sino all’ultimo. Liquidati a giugno per insolvenza tributaria e bancarotta, appesantiti dalla gloria, 54 campionati scozzesi, 60 fra Coppe nazionali e Coppe di Lega, 1 Coppa delle Coppe, non hanno mai smesso di sorridere. Come nei film, il proprietario della vergogna, Craig Whyte, era scappato lasciando nei conti un buco grande come una
porta. Da Montecarlo invia ancora segnali minacciosi: «Ma se si muove lo mettiamo dentro e buttiamo la chiave». Per evitare la tripla retrocessione
bisognava trovare 30 milioni di sterline in una settimana.
Impossibile. Gli è stato permesso di conservare il nome: ma ripartendo dalla cantina. Solo sabato, su insistente richiesta di molti tifosi, s’è scoperto che nel pool di 19 investitori (fra cui c’è anche l’allenatore McCoist) guidato nominalmente da Charles Green i maggiori azionisti sono gli arabi della Abraaj Capital di Dubai: «All’inizio i tifosi ci odiavano», spiega Green, «credevano che fossimo un’estensione mascherata della vecchia oligarchia». Lentamente hanno preso confidenza: «Il pro-
blema non è giocare in casa ma fuori: quando ci rendiamo conto che non è facile trovare la concentrazione in campi di periferia, con la gente ai bordi del campo, le macchine, i clacson, i cani...», ammette Cribari, centrale difensivo brasiliano, ex Empoli, Udinese, Lazio, Siena, Napoli. Due settimane fa, a conferma che nemmeno in terza divisione esistono partite scontate, fra imbarazzi e distrazioni, i Rangers hanno perso 1-0 in casa dello Stirling Albion, definita una delle «peggiori squadre di Scozia». Molti giocatori di McCoist si sono
decurtati lo stipendio: «Anche per rispetto dei nostri avversari, molti dei quali sono elettricisti o studenti che lavorano nei call center», riconosce il capitano McCulloch. Per prendersi la vetta del campionato i Rangers hanno scelto un’occasione speciale: scendendo di tre gradini s’erano ritrovati di fronte il Queen’s Park, la squadra di Glasgow che gioca ad Hampden Park (dove vanno a vederla in mille), nella quale esordì da calciatore Sir Alex Ferguson e che per scelta non si è mai aperta al professionismo. Hanno vinto 2-0 con doppietta di McCulloch il saggio. È il derby più antico della storia del calcio. Il primo fu un’amichevole: 137 anni fa, nel 1875, quando Stevenson non aveva ancora scritto una riga. Vinse 1-0 il Queen’s Park. Contento il Celtic che s’è visto girare per la città la scritta: «Il vero derby di Glasgow! ». «Ma chi se ne importa», se la ridono i bianco-verdi (sabato 0-5 al St. Mirren), «le ultime sfide coi Rangers (la celebre “Old Firm”, ndr) sono state una passeggiata...».