Adriano Sofri, la Repubblica 22/10/2012, 22 ottobre 2012
OCCUPARSI DEL PARADISO ECCO IL VERO CASTIGO
Non avevo mai pensato che la storia della Cacciata dal paradiso si potesse riscrivere alla rovescia, senza cacciata: per castigare davvero le sue creature, il Signore le condannò a restare, e a occuparsi del paradiso, loro e i loro discendenti, fino a trasformarlo in un inferno. L’ho immaginato leggendo il racconto che Giuseppe Barbera fa della Conca d’oro. Il castigo di Dio è delegato alle creature, Dio si limita a renderle responsabili. Ricevuto un paradiso in appalto, gli esseri umani – i più vari, dalle più varie provenienze – se ne fanno orgogliosamente custodi e curatori, secondo un ideale di utilità e di bellezza, l’una impensabile senza l’altra. Frutti e fiori, l’utile e il dilettevole –“il sollazzevole”, come preferiscono dire i testi che via via cantano quel giardino terrestre. È la variante siciliana della
tesi (dubbia) sui vizi privati e le pubbliche virtù: trarre
e proprio delicio publica utilitas,
dal piacere proprio il vantaggio di tutti.
Che il serpente scelga l’albero per appostarsi e insidiare è un gran dolore per Barbera, uomo di alberi oltre che di capperi e fichidindia e altre meraviglie. Tanto lenta e metodica è la trasmissione fra le trecento generazioni che fanno ricca e bella una terra favorita dalla creazione, quanto catastrofico è il gesto che in una generazione o due ne fa una terra desolata e offesa, nella quale d’ora in poi vivere è una condanna, un esilio capovolto. Questa mia trascrizione mitologica della storia della Conca d’oro non è così fantastica, se si pensa alla premessa in cui Barbera si racconta ignaro studente a studiare l’irrigazione dei mandarini nel giardino di un papa di Cosa Nostra. I mafiosi infatti possono amare i giardini, benché solo i loro, e sognare il Paradiso, benché solo per sé. Il visitatore vede gli scempi, ma anche le meraviglie, l’orto botanico, i carrubi, le ferule lungo le strade – nel cui cavo Prometeo portò la scintilla agli umani, ma in Grecia sono molto più rare – ma non sa abbastanza da fare
confronti. È come un palermitano di vent’anni, cui deve sembrare che le cose non possano essere che così, con gli scheletri di cemento seminati su un monte come un presepio di rovine. Si ascoltano racconti e si imparano parole, come di quell’abitante di Salemi, appena all’interno, che arrivato sopra Palermo per la prima volta in vista del mare esclamò: «Potenza della gebbia grande!» Anche «agli invasori musulmani, che vi giungono nell’830, la Conca d’oro appare come il paradiso promesso dove, come recita una Sura del Corano, “corrono ruscelli, perennemente vi sono frutti e ombra”». E paradiso terrestre lo chiamano al loro arrivo i normanni. E così a ogni nuovo “invasore”.
La voracità da convalescenza di una generazione uscita dalla guerra e un regime criminale hanno devastato la terra come nemmeno avrebbe potuto una legione di cavallette. Ma già Franchetti e Sonnino avevano avvertito come nel regno della Mafia «quel profumo di fiori d’arancio e di limone principia a sapere di cadaveri». Tra il 1955 e il 1975 ogni anno centinaia di milioni di metri cubi di cemento e centinaia di chilometri di asfalto «hanno soffocato un milione di metri quadrati di suolo e preso il posto di oltre un milione di alberi».
E ora? Si è tentati di dire che la Conca d’oro – non solo lei – è stata rottamata, e ora si tratta di riparare, per quanto è possibile. Il libro di Barbera esce alla vigilia di una ennesima elezione siciliana: in genere le elezioni siciliane sono, per così dire, specialmente deludenti, al di là del loro risultato. Questa volta non fa eccezione. Grillo solletica il pubblico proclamando che «la Sicilia non ha bisogno dell’Italia». Ma la Sicilia e l’Italia non si fanno più reciprocamente eccezione. La palma è salita al nord, e si è portata dietro il suo punteruolo. Nei giorni scorsi abbiamo letto qui gli articoli di Francesco Merlo –“Togliamo alla Sicilia lo Statuto speciale”– e di Salvatore Settis –“In Sicilia anche l’arte è a Statuto speciale” –. Come sarebbe bella una campagna elettorale democratica e federalista che rivendicasse apertamente la soppressione delle regioni a statuto speciale, tutte, anche quelle che all’altro capo dell’Italia hanno fatto fruttare i propri privilegi, e difendesse quelle ordinarie, che oggi pericolano al punto che si vorrebbe buttarle via con la loro acqua sporchissima.