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 2012  ottobre 22 Lunedì calendario

BUM BUM E I FANTASMI “ORA DORMO TRANQUILLO”

[13.11.1982, la data che ha cambiato la boxe]

Las Vegas, scena del crimine e «Csi» non c’entra niente anche se c’è un morto ma non esiste un colpevole e finalmente, trent’anni dopo, tutti hanno smesso di cercarlo.

Tredici novembre 1982 sul ring del Caesars Palace si sfidano Ray Mancini e il coreano Duk-koo Kim, incontro valido per il titolo Mondiale dei pesi leggeri, incontro che finisce male: toglie la vita a Kim, cambia il destino di Mancini e continua a fare danni per generazioni. Incontro che solo oggi ha smesso di fare danni. Si è sciolto nell’abbraccio tra Mancini e Jiwan, il figlio di Kim. L’unico che poteva perdonare e cancellare il tormento. La scena è raccontata in un libro, «The Good Son», ed è diventata un film che sarà proiettato in anteprima, negli Usa, il 13 novembre, anniversario della tragedia e data della rinascita.

Ray Bum Bum Mancini, una vita dietro un fantasma. Prima di quell’incontro era l’icona della boxe, strapagato, adorato, perfetto. L’uomo capace di realizzare i sogni del padre: gli aveva rubato il soprannome, Bum Bum, e aveva ripreso una storia interrotta da una ferita di guerra. Mancini senior era un eroe, colpito da schegge di granata in Francia, nel 1944, Mancini jr era un idolo, coccolato dalle tv, corteggiato dai manager, combattimenti epici e incassi stellari fino a che non è diventato «il pugile che ha ucciso quel coreano». Un etichetta difficile da buttar giù soprattutto se quando te la appiccicano addosso non sai neanche che è successo, perché mentre Kim viene portato in ospedale Mancini viene trascinato a un concerto di Frank Sinatra. Va tutto storto, non c’è nemmeno il lutto, solo reazioni a catena che allontanano il futuro.

Kim muore dopo 4 giorni di coma ed è così che diventa famoso il ragazzo dall’infanzia difficile e dal carattere tosto. Padre violento, madre che scappa e resta senza un soldo. Elemosina e sofferenza fino al secondo matrimonio. Con un pescatore. A Duk-koo non basta, si trasferisce a Seul per diventare grande, «per imparare a combattere» e in palestra gli insegnano a farlo. Non è un talento, è uno che non si arrende, non è una star e per giunta si innamora giovane, proprio quello che i pugili asiatici non dovrebbero fare per diventare famosi perché secondo il suo tecnico, il club, il manager, l’entourage e l’uomo all’angolo il matrimonio rimbambisce, rende più deboli.

L’aspirante campione si adegua e non sposa la fidanzata Young-mi, nemmeno la può salutare all’aeroporto perché ci sono troppi fotografi e l’immagine ne risentirebbe. Lei è incinta e lo guarda da lontano. Non lo rivedrà più, l’ultima frase che gli sentirà dire è quella che lui si è preparato per la conferenza stampa: «Questo ring è un paradiso. Qui o morirà lui o morirò io». È lingua da pugilato, niente di straordinario, è inutile cercarci macabri presentimenti, è solo cinema, fanfara, fumo negli occhi. Solo che succede davvero, Kim muore sul serio e si spegne la tv, i network smettono di comprare gli incontri, la gente si chiede che senso abbia uno sport dove ci si ammazza e non c’è più ritorno. La boxe si trasforma, diventa più tecnica, più controllata, si evolve mentre la vita di Mancini resta inchiodata lì.

Un anno dopo lo ributtano nella mischia, lui giura di stare bene ma l’America ancora non lo vuole vedere. Il ritorno viene organizzato in Italia, a Saint Vincent, Grand Hotel Billia ed è un disastro. Una settimana prima la madre di Kim si suicida, butta giù una bottiglia di pesticidi, non è la sola a togliersi la vita, lo fa anche l’arbitro dello sciagurato incontro di Las Vegas, Richard Green, altra vittima. E ancora nessun colpevole. Il principale indiziato resta lui, Bum Bum Mancini che proprio in Italia si accorge di non poter scappare, inizia ad autoaccusarsi e firma il suo declino. In poco tempo perde il titolo, i contratti e quel che resta della serenità. Smette nel 1992, dieci anni dopo la tragedia e ce ne mette altri 20 per rimettersi in piedi.

«C’erano notti in cui Kim mi arrivava in sogno e non riuscivo mai a capire cosa succedesse davvero, spero di avergli potuto chiedere scusa almeno lì, ma non so cosa dicessi o cosa rispondesse. Forse era normale che fosse lì, pensavo a lui tutto il giorno e lo evocavo». La confessione sta nel libro del giornalista americano Mark Kriegel, lo scrittore che ha catturato il futuro. Per quasi trent’anni non è successo nulla, senso di colpa, rimorsi e paura; poi è comparso Jiwan, il figlio di Kim. E stranamente non cercava vendetta.

È arrivato a Los Angeles con la madre per conoscere Ray e la sua famiglia, per chiudere un capitolo e scacciare il bisogno di trovare a tutti i costi qualcuno da accusare. È successo anche a lui, ha scoperto di non avere un padre a 9 anni, prima gli avevano raccontato una favola: «Lavora all’estero». Era impossibile dirgli che papà era morto senza spiegargli come. Si è rifiutato di vedere le immagini del match fino all’università e quando è successo, quando ha guardato quelle ultime devastanti riprese: «Ti ho odiato». È questo che ha detto a Mancini dopo averlo abbracciato, «ma è stata una fase, dovevo passarci, poi ho capito che non era colpa tua». Un confronto sobrio, con poche lacrime e tanti silenzi: «Sei cresciuto bene, tuo padre sarebbe fiero di te», «Non ho conosciuto mio padre ma da come combatteva si capisce che sapeva amare». Il modo in cui combatteva l’ha ucciso: «Non si fanno passi indietro», era il suo motto ma a Jiwan non interessa, non vuole più sapere cosa è successo, vuole solo andare avanti: «Troppa gente ha sofferto, mi spiace che i tuoi figli tiabbiano visto infelice, basta».

Ray Mancini ci ha messo un po’ a metabolizzare l’offerta, a far tacere i ricordi. Per andare oltre si è confessato in un libro e si fatto riprendere in un film. Ha affrontato il fantasma che teneva chiuso nell’armadio da 30 anni e «ora posso dormire in pace». La sua esistenza non è più legata alla scena del crimine. Non c’è più il crimine, solo memoria da rispettare.