Francesco Guerrera, la Stampa 22/10/2012, 22 ottobre 2012
IL 6 NOVEMBRE DECIDERÀ IL PORTAFOGLI
Prendi un lunedì sera uggioso nella Grande Mela.
Io seduto su una poltrona un po’ troppo comoda in un’aula della New York University. Accanto a me, Paul Volcker, il leggendario capo della Federal Reserve che sconfisse l’inflazione negli Anni 80. Davanti a noi, più di 400 persone venute a sentire l’eminenza grigia della politica economica americana degli ultimi quarant’anni.
Ad un certo punto chiedo a Volcker, «Mr. Chairman, secondo lei qual è il pericolo più grande per l’economia Usa in questo momento?». E’ una domanda retorica. La risposta che mi aspetto, che si aspettano un po’ tutti dal lucido e grintoso ottuagenario è un’invettiva contro l’inflazione, un monito alla Fed di oggi di stare attenta all’aumento dei prezzi.
Ed invece, Volcker mi guarda, fa un sorriso un po’ monello, si gira verso il pubblico e dice: «E’ semplice. Il problema più grande dell’economia americana è che il paese è spaccato a metà».
Il resto della risposta non contiene né numeri né complicati termini economici. Solo una diagnosi spassionata di come gli Usa di oggi siano divisi. Tra destra e sinistra, ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne. Volcker, che si è sempre erto al di sopra della politica dei partiti, conclude con una nota d’ottimismo. «Spero che le elezioni ci aiutino a colmare le nostre differenze».
Meno di 24 ore dopo, i due uomini chiamati a colmare quelle differenze, Barack Obama e Mitt Romney, si sono scannati in diretta televisiva in un dibattito presidenziale che sembrava un match tra pesi massimi.
Sentire il presidente democratico e il pretendente repubblicano attaccare i valori e le politiche dell’altro è stata la dimostrazione più evidente di un’America in crisi d’identità.
La scelta delle elezioni presidenziali del 6 novembre è netta su quasi tutti i temi: dalla politica estera all’aborto, passando per la sanità e la difesa. Il trucco della politica americana degli ultimi 50 anni, che le elezioni si vincono al centro, non sembra funzionare in questa campagna elettorale.
Ma la differenza più inequivocabile tra Obama e Romney è sull’economia. L’elettorato Usa dovrà scegliere tra l’interventismo populista del presidente e il «laissez-faire» individualista del candidato.
Chiunque vinca dovrà, comunque, salvare il paese dal «precipizio fiscale» prima della fine dell’anno, trovando un accordo con il Congresso per postporre gli aumenti di spesa e la fine di esenzioni fiscali che potrebbero causare un’altra recessione.
Ma anche se gli Usa non verranno trafitti da quella spada di Damocle, le conseguenze dell’elezione saranno profonde. Se Obama rimane alla Casa Bianca, «il segretario del Tesoro sarà John Maynard Keynes», si è lamentato uno scetticissimo banchiere di Wall Street.
Voleva dire che ci saranno aumenti di spesa pubblica e rincari delle tasse, soprattutto per i più ricchi (come lui). Sulla spesa il presidente non ha detto granché visto il deficit enorme degli Usa e la riluttanza storica dei politici americani a parlare di costi in campagna elettorale.
Ma sul secondo punto, Obama è stato chiarissimo, dicendo di voler imporre un’imposta del 30% su chi guadagna più di un milione di dollari l’anno. Il Presidente l’ha chiamata «la tassa Buffett», ricordando a tutti che il miliardario Warren Buffett - l’investitore più famoso del mondo - ha spiegato di recente come non sia giusto che lui paghi meno tasse della sua segretaria.
Se l’idea degli uomini del Presidente era quella di usare Buffett come scudo umano contro accuse di socialismo, non ha funzionato. Sono ormai mesi che i repubblicani accusano Obama di voler fare «la lotta di classe» per meschini fini politici.
Per Romney - un milionario che ha fatto soldi a Wall Street e paga circa il 15% di tasse - le idee di Obama e Buffett distruggerebbero il sogno americano, asfissiando il fervore imprenditoriale che ha creato società quali Microsoft, Google ed Apple.
Nella tradizione della destra americana, Romney vuole che il governo si tolga di mezzo, lasciando gli individui a decidere da soli come diventare ricchi e contenti. Con Romney nell’ufficio ovale, la redistribuzione del reddito, lo stato sociale e la sanità, sarebbero delle Cenerentole da lasciare a sinistrorsi ed europei.
Mitt dice di voler essere un presidente alla Ronald Reagan, tutto sgravi fiscali e liberalizzazioni, mentre Barack promette un secondo quadriennio tra Bill Clinton e Franklin Delano Roosevelt.
Due filosofie politiche ed economiche in pieno conflitto con se stessi ma non con il paese. Uno dei motivi principali per cui la corsa alla presidenza è così in bilico è che le ricette proposte dai due candidati rispecchiano le divisioni dell’America.
La dura recessione del dopo-crisi ha colpito le classi medie in maniera sproporzionata, perché gran parte del loro patrimonio è sparito con l’implosione del mercato immobiliare. Il risultato è stato un aumento nel divario tra classi sociali. Dal 2008, l’1% dei più ricchi ha ricevuto quasi un quarto del reddito Usa, una cifra enorme.
Se si passa dai salari al patrimonio, aggiungendo gli investimenti ed altre entrate, il divario diventa un baratro. L’1% in questo momento controlla un terzo del patrimonio nazionale statunitense.
Per Romney e i suoi, questo è un fenomeno naturale che dovrebbe spronare altri a lavorare di più e meglio per entrare nel Gotha della ricchezza. Il ruolo del governo, in questo caso, è di facilitare, ma non influenzare il processo.
Per Obama e la sua base, invece, la sperequazione tra ricchi e poveri è «ingiusta» e va rettificata con interventi statali sia sul fronte fiscale che su quello della spesa.
Con buona pace di Aristotele e Confucio, in questa dialettica non c’è giusto mezzo.
Le differenze sono ancora più lampanti per chi lascia i numeri a casa e scende nelle strade e nelle piazze. Un giro a New York, come anche a San Francisco e a Houston, dimostra che le grandi auto e le scarpe di pelle italiana dividono le strade con barboni senza tetto e mendicanti vestiti di stracci.
Non è un caso che quest’economia Usa abbia prodotto due movimenti popolari e populisti - l’Occupy Wall Street a sinistra e il «Tea Party» a destra - che attaccano lo status quo e chiedono cambiamenti radicali (anche se opposti).
Nelle urne del 6 novembre, gli americani sceglieranno il leader del mondo libero più con il portafogli che con il cuore.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York francesco.guerrera@wsj.com