Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 20/10/2012, 20 ottobre 2012
LA CONTRORIVOLUZIONE ETICA DEL MARESCIALLO PÉTAIN
Ho capito male o lei è convinto che la Francia del maresciallo Pétain fosse uno Stato etico? Pétain può anche avere parlato di «redressement moral», di risanamento morale, ma il suo governo fu tutto meno che etico...
Silvia Rossetti, Parma
Cara Signora, la parola «etico», in questo contesto, non è necessariamente una bella parola. Serve a definire gli Stati che credono di sapere ciò che è buono e giusto per i loro cittadini. Non tutti predicano le stesse cose, ma in ciascuno di essi il governo ha una insopprimibile tendenza ad accreditarsi come depositario di verità, custode di valori inalienabili, unico interprete autorizzato degli interessi del popolo, della classe operaia o delle famiglie. Lei potrebbe osservare che queste caratteristiche sono presenti, più o meno, in tutti gli Stati. È vero, ma le differenze sono pur sempre importanti e sarebbe sbagliato ignorare che la Gran Bretagna, nel corso del Novecento, fu infinitamente meno «etica» dell’Unione Sovietica, dell’Italia fascista, della Germania nazista, della Spagna franchista e del Portogallo di Salazar.
Nel caso dello Stato di Pétain (una entità che non era né monarchia né repubblica) l’etica ufficiale aveva le sue radici in quella Francia cattolica per cui la Grande Rivoluzione del 1789 fu, come sostenne Joseph de Maistre, una punizione divina. I cattolici avevano combattuto contro i giacobini sui campi della Vandea. Si erano parzialmente riconciliati con Bonaparte dopo il Concordato del 1801, ma erano tornati all’opposizione dopo le umiliazioni inflitte dall’Imperatore a Pio VI e a Pio VII. Avevano accolto con gioia il ritorno dei Borbone e accettato con sospetto la monarchia degli Orléans. Erano riusciti a ispirare almeno in parte la politica di Napoleone III, ma erano ritornati nell’ombra dopo la guerra franco-prussiana e la nascita della III Repubblica.
Negli anni seguenti questo fronte conservatore, se non addirittura reazionario, si allargò sino a includere tutti coloro per cui il parlamentarismo corrompeva le istituzioni, gli ebrei contaminavano il sangue della nazione, la laicità minacciava il patrimonio spirituale del Paese e gli immigrati erano un attentato all’antica identità francese. Fu questa la ragione per cui il caso Dreyfus (dal nome del capitano ebreo ingiustamente accusato di spionaggio a favore della Germania) divenne rapidamente una guerra civile culturale tra le due anime del Paese: quella cattolica, reazionaria, monarchica e quella repubblicana, democratica, laica.
Il riconoscimento dell’innocenza di Dreyfus ebbe per effetto la sconfitta del partito cattolico e la legge di separazione fra lo Stato e la Chiesa del dicembre 1905. Nel 1940 le sorti della partita si rovesciarono. Per Charles Maurras, fondatore dell’Action Française (un’associazione bellicosamente monarchica), la sconfitta fu una «divina sorpresa»; per gli intellettuali antirepubblicani e antiparlamentari fu l’occasione che avrebbe consentito la rifondazione morale e istituzionale del Paese; per la Francia cattolica e benpensante fu una sorta di restaurazione. E per gli uomini a cui la disfatta regalò il potere quello fu il momento in cui i tre comandamenti del 1789 — libertà, eguaglianza, fraternità — sarebbero stati finalmente sostituiti da altri tre, ancora profondamente etici: lavoro, famiglia, patria.
Sergio Romano