Luca Ricolfi, La Stampa 20/10/2012, 20 ottobre 2012
STIPENDI BASSI LA COLPA NON È TUTTA DEL FISCO
Con questo dossier sul costo del lavoro siamo giunti all’ultima puntata della nostra inchiesta «Cosa soffoca l’Italia» (le scorse puntate sono state pubblicate l’11, 15, 17 e 23 settembre e il primo, l’8 e il 15 ottobre).Nei prossimi giorni forniremo un superindice sintetico del costo del produrre in Italia, che ve lo assicuro - ci riserverà non poche sorprese. Intanto soffermiamoci sul più importante, o meglio sul più discusso, dei costi che un’impresa deve sostenere: il costo del lavoro. Cominciamo con la prima domanda: fra i costi di impresa quello del lavoro è davvero il più importante? Potrà sembrare strano, ma la risposta è no. In tutte le economie avanzate il costo di un prodotto dipende molto di più dagli altri input (energia, acquisto di semilavorati, servizi) che non dal costo del lavoro. In nessun Paese supera il 50% del costo degli altri input, e in Italia è ancora più basso: meno del 30%, contro il 40% della Spagna, il 43% della Germania, il 45% della Francia. Ma allora perché il costo del lavoro è così cruciale? La ragione è che in Italia è basso il valore aggiunto, ossia il valore che viene prodotto a partire dagli input. In Italia a un input di 100 euro corrisponde un valore aggiunto di soli 42, contro i 54 della Spagna, i 57 della Francia, i 60 della Germania, gli 80 della Norvegia. Essendo basso il valore aggiunto, ovvero la torta da spartire, la quota che va al lavoro diventa critica: se è troppo grande, saltano i conti delle imprese.
E’ dunque questo che succede in Italia? Le imprese non hanno margini sufficienti perché la quota di valore aggiunto che va al lavoro è troppo grande? La risposta è di nuovo no. I lavoratori dipendenti hanno una busta paga, in media, di circa 1900 euro al mese. Il loro potere di acquisto è basso non solo rispetto a quello di Paesi ricchi, come Norvegia, Svizzera e gli Stati Uniti, ma anche rispetto ai Paesi con cui di solito ci compariamo: Spagna, Francia, Germania, Regno Unito. Se un lavoratore italiano andasse in Francia i 1900 euro diventerebbero 2200, in Germania 2600, nel Regno Unito 2900. Ma allora chi si appropria del valore aggiunto? Se le imprese hanno margini risicati, e i lavoratori hanno buste paga misere, chi è che ci guadagna? Per capirlo basta un’occhiata al grafico (il terzo dall’alto) che riporta l’incidenza del cuneo fiscale e contributivo sul costo del lavoro, ossia la quota del reddito che va al fisco e agli enti di previdenza. Solo la Francia è altrettanto punitiva. Quasi tutti gli altri Paesi hanno valori più bassi, e in alcuni casi - Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Svizzera - il cuneo è circa la metà del nostro. Arrivati a questo punto, si sarebbe tentati di concludere al modo solito: verrebbe da dire che il problema dell’Italia non sono i bassi salari, ma la quota che finisce alla Pubblica amministrazione: se solo lo Stato rinunciasse a incamerare una fetta così grande dei redditi da lavoro dipendente, tutto andrebbe a posto. Questo ragionamento non è sbagliato, ma non fa completamente i conti con i dati. E’ ovvio che se lo Stato rinunciasse in toto o in parte ai prelievi i lavoratori starebbero meglio.
Se la rinuncia dello Stato fosse totale (ipotesi assurda, perché nei contributi sono incorporate le future pensioni) e tutto il reddito andasse ai lavoratori, il loro potere di acquisto schizzerebbe a 3.340 euro al mese, un po’ più del livello attuale del Regno Unito. Questo però non significa che tutto il problema stia nel cuneo fiscale. Per capire se è davvero il cuneo fiscale che ci penalizza così tanto, dobbiamo immaginare che cosa succederebbe se tutti gli Stati azzerassero il cuneo fiscale. Ebbene, il risultato è che la posizione relativa dell’Italia rispetto agli altri Paesi non cambierebbe in modo drastico: Francia, Germania e Regno Unito, che ci superavano nella busta paga netta, continuerebbero a superarci anche se - per miracolo - le retribuzioni diventassero lorde, con tutto il cuneo in busta paga. La realtà, purtroppo, è che sono vere contemporaneamente due cose. La prima è che in Italia il costo del lavoro è basso comunque lo si calcoli, al netto o al lordo del cuneo fiscale. La seconda è che, con gli elevati costi degli input e la bassa produttività che caratterizza il sistema, le imprese non possono permettersi nemmeno un costo del lavoro così basso. Il cuneo aggrava certamente il problema, perché è fra i più alti del mondo, ma non è il nodo fondamentale. Il punto dolente del fare impresa in Italia resta il basso valore aggiunto: ossia quanto poco siamo in grado di produrre rispetto agli input che immettiamo nel processo produttivo. E, purtroppo, non c’è riforma o rimodulazione del cuneo fiscale che possa risolvere questo problema.