Riccardo Luna, la Repubblica 20/10/2012, 20 ottobre 2012
IMPARIAMO A LEGGERE I DATI
Qualche giorno fa un ministro è andato ad un convegno a parlare di sviluppo economico. E ai giornalisti ha detto: “Adesso penso alla grande paura di 50 milioni di famiglie alle prese con la crisi”. La frase era indubbiamente efficace ed è finita nei titoli di molte notizie di agenzia e dei siti internet, è passata dalla radio alla tv, e la mattina dopo era su qualche giornale cartaceo. Peccato che le famiglie italiane non siano 50 milioni ma, circa, la metà. Ora qui è successo un fatto che vale la pena di analizzare. Un ministro la spara grossa (per carità, sbagliamo tutti, magari aveva iniziato la frase in un modo e l’ha finita in un altro); i cronisti riportano, i giornali pubblicano. E nessuno controlla.
Quello che manca in queste sequela di errori è un po’ di
cultura: cultura dei dati. Eppure la rete ha moltiplicato all’infinito la disponibilità dei dati: dei dati pubblici (open data) e di quelli che gli utenti o le cose creano con il loro comportamento (big data).
Quei dati per chi sa leggerli sono una miniera di informazioni e quindi di ricchezza: “Sono il nuovo petrolio”, sostiene il creatore del Web Tim Berners Lee. Ma quanti italiani conoscono l’ordine di grandezza del prodotto interno lordo? O del debito pubblico?
Pochi, probabilmente anche fra i giornalisti. Per questo da alcuni anni nel mondo si parla di data journalism, un nuovo giornalismo fatto di analisi di dati più che di dichiarazioni. E per questo da qualche mese fioriscono corsi per giornalisti che vogliano imparare a leggere i dati. Ce n’è bisogno.