Maurizio Crosetti, la Repubblica 19/10/2012, 19 ottobre 2012
DA SIVORI, ALTAFINI E ZOFF A FERRARA QUANTO AZZURRO NELLE VENE DI TORINO
[Tra i cimeli del museo juventino che uniscono le due storie] –
TORINO
La Juve è quell’universo che contiene anche un bel po’ di Napoli e viceversa, è una squadra-mondo, e per capirlo bene bisogna venire qui, al museo della Juventus, dentro lo stadio nuovissimo che sta nel quartiere delle Vallette, all’estrema periferia di molte cose, non solo di una città. Le Vallette: l’antico borgo dei “napuli”, quando così venivano chiamati i meridionali a Torino, tutti, non solo i napoletani o i campani. Se nella carta stradale provenivi da sotto Roma, eri un napuli, punto.
La squadra più meridionale d’Italia, la Juventus. Più del Palermo, più del Bari, più dello stesso Napoli. Per numero di tifosi, legame geografico diretto o indiretto, appartenenza territoriale per quelli che un territorio l’avevano lasciato e non per scelta, semmai per obbligo di pagnotta.
Gli operai della Fiat, quelli del sud: ora non ha più senso tracciare le divisioni, certe marcature sono saltate, ma quando Boniperti riempì la Juve di siciliani, sardi, pugliesi, insomma di “napuli”, la Giuve era la loro terra mobile, quasi un ritorno a casa. Inizio degli anni Settanta, quando due campioni del Napoli, cioè Zoff e Altafini, diedero alla Signora scudetti e vendette. Nel museo c’è la foto di Josè nella stagione ’74-’75, quella del suo gol crudele ai partenopei, il 2-1 in extremis che significò il tricolore. “Altafini core ‘ngrato” scrissero su un cartello appeso alla cancellata del San Paolo. «Ma Dino, prima della mia rete, aveva salvato la partita eppure nessuno lo chiamò ingrato, solo io, vi sembra
giusto?» I guanti bianchi e rossi di Zoff sono un altro cimelio che racconta l’incrocio di due mondi, due squadre, due città, due opposte maniere di prendere la vita, anche due schemi abusati, due luoghi comuni: Torino e Napoli, il nord e il sud, gli sgobboni e perditempo, i seri e i pazzarielli. Guanti con le dita consumate da molte prese, Dino era un drago e agguantava il pallone se poteva, riducendo al minimo i voli, i pugni contro il cuoio, la platealità. L’esatto contrario del più bollente pezzo di Juve passato al Napoli, con un percorso inverso rispetto a Zoff e Altafini:
lo compì Enrique Omar Sivori, bianconero dal ’57 al ’65, napoletano dal ’65 al ’69. Nella teca di cristallo ecco il suo Pallone d’Oro del 1961, piccolo, sobrio, non come oggi che la sfera appoggia su un piedistallo di quarzo ed è quasi in grandezza naturale. Ci sono il telegramma di proclamazione di France Football datato 9-12-‘61,
le scarpette di Omar, il primo contratto bianconero,
il 45 giri di Marino Barreto junior, “Sivori cha cha cha”, la sua maglia abbondante (una camiciona col 10 rosso sulla schiena), i filmati del suo ciuffo, degli stinchi nudi e dei suoi dribbling, compresi quelli in un remoto giorno di fango, eppure la palla è domata come nel più asciutto e lucente dei pomeriggi. Sivori, colui che portò il Carnevale quotidiano nella Torino dell’esattezza di fabbrica, della monotonia del tornio.
Sotto vetro c’è pure una lettera dell’allora presidente Umberto Agnelli, genericamente indirizzata
alla squadra, ma è chiaro dal testo che il dottore parlava a Omar: “... il rientro a casa non più tardi delle ore 22.45, eventuali deprecabili infrazioni verranno severamente perseguite”. Tirar tardi la sera, godersi l’esistenza oltre le regole, insomma vivere: pure questa, robaccia napoletana. Poco consona ai binari mentali dei sabaudi, alle loro strade diritte come tiri in porta.
Sembrerebbe poca cosa il Napoli dentro la Juve, nel museo dentro lo stadio, nello stadio dentro la città, nella città che non è solo Torino da almeno mezzo secolo: ma così non è. E’ tanto, invece. E’ la maglia di Zoff, ancora lui, grigia e nera, inamidata come un abito da funerale, cupa come la luce quando la sera precipita all’improvviso addosso alla città della Fiat, a novembre, e viene solo voglia di piangere o di lavorare, di “ruscare” ancora di più. La Torino delle chiavi a stella nelle mani di metalmeccanici sapienti, ma anche la Torino delle pizzerie napoletane veraci come “Gennaro Esposito”, o quell’altra che ha messo su Ciro Ferrara, con le zeppole profumate quasi come a Fuorigrotta: che si chiami “Da Ciro” è ovvio. Al museo c’è naturalmente la sua maglia, quella indossata il giorno della partita juventina numero 500, come ricorda il numero scritto in rosso sul petto, un oggetto da collezionisti. Dentro un monitor, ecco all’improvviso il Napoli di Maradona respinto dalle mani di Tacconi. Diego, che Boniperti segnalò all’Avvocato quand’era solo un bambino, su indicazione di Sivori, però non vennero ascoltati, e più tardi Agnelli non se la sentì di comprarlo, sarebbe stato un affronto alla crisi degli operai, tutti quei soldi per un pallone, non si poteva, in quel tempo senza manager in maglione c’era almeno l’apparenza di un maggiore riguardo.
Quanto Napoli è passato in queste stanze, nella catena dei giorni perduti, consumati come una palla presa a calci sull’asfalto dai bambini. Anche i filmati lo dimostrano, la “clip” di Massimo Mauro che giocò con Platini e Maradona, la pelata mondiale di Cannavaro, una smorfia del guaglione Quagliarella che se domani segna poi non esulta, i fotogrammi de “L’Uomo in più” di Paolo Sorrentino, pure qui c’è un po’ di Juve (l’attore Andrea Renzi vestito da Platini), gli appunti di Lippi il doppio ex («Occorre cercare sempre l’anticipo! »).
Nella sala dei trofei brilla la Supercoppa vinta a Pechino, è tempo di veleni freschissimi, stiamo parlando di quest’estate: tra i memorabilia, il biglietto della finale cinese, la fascia da capitano di Buffon, le scarpe di Vucinic. Amori, dolori, livori e ricordi: il gagliardetto dello Juventus Club “Andrea Fortunato” di Angri, Salerno, povero ragazzo, gentile e timido amico svanito in un soffio.