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 2012  ottobre 19 Venerdì calendario

L’ALTRO POUND

[“Così la politica sfrutta ingiustamente il nome di mio padre”] –
TIROLO DI MERANO
«Solo ora posso capire i miei genitori, la loro lunga storia sentimentale, anche il riserbo, le sensibilità ferite. Posso capire ora che ho l’età di mio padre Ezra Pound quando si congedava dal mondo, incompreso fino alla fine ma in fondo sereno, quasi sorridente». Mary de Rachewiltz ha 87 anni e la grazia di una charming princess, come era chiamata nel bel mondo americano. Abita in un castello dalle torri merlate nelle valli tirolesi, “la casa senza maniglie alle porte” che colpì l’immaginazione di Quasimodo. Una magione cupamente fiabesca in cui venne a stare nel 1946 con il neosposo principe de Rachewiltz, e per una lunga stagione “buen retiro” di Pound e della sua illustre tribù. «Ma qui mio padre si annoiava mortalmente, si sentiva isolato dal mondo », aggiunge Mary con lo humour affinato da anni di tragedie. «Vi arrivò sul finire degli anni Cinquanta, dopo l’esperienza della gabbia — sì, la gabbia — e poi l’internamento nell’ospedale psichiatrico del St. Elizabeth’s a Washington. Era stato attratto dal fascino medievale del castello, ma lui cercava l’Italia, il paese che aveva amato senza esserne ricambiato. E qui certo, pur tra vallate meravigliose, non poteva trovarla».
Sorride sempre Mary, scintille d’oro negli occhi turchesi, mentre s’appresta a ricordare l’“Omero del Novecento” a quarant’anni dalla morte. Ma lo sguardo tradisce distanza e pensieri remoti, come ad inseguire un mondo di eleganza intellettuale che non esiste più. Un mondo intessuto di buon gusto e cultura, gemme preziose ma anche sentimenti crudeli, da lei conquistato tardivamente — e non senza tormento — dopo un’infanzia trascorsa in Val Pusteria tra mucche e carriole di letame. «Sì, mi sento tuttora una pastora», dice lei civettando con l’infanzia agreste. «Alla nascita i miei genitori mi affidarono a una coppia di contadini di Gais. Crebbi come una di loro, gioiosamente affamata di canederli e speck. Ogni tanto mi venivano a trovare il Signore e la Signora. Avevo una gran voglia di accarezzare le scarpe lisce e lucide che dondolavano davanti ai miei occhi. Ma la mamma contadina, vigile sulla soglia, me lo impediva».
La storia di Mary è una favola triste del Novecento, frutto della lunga storia sentimentale tra Pound e la violinista americana Olga Rudge. Due artisti legati per cinquant’anni da amore profondo — a lei, alla sua compagna coraggiosa rimasta con lui fino alla fine, sono dedicati gli ultimi versi dei Cantos — però mai sposati, essendo Ezra coniugato con la pittrice inglese Dorothy Shakespear. «Sono una figlia naturale, mai riconosciuta legalmente », racconta Mary sistemandosi il nastro di raso alla vita. «Nel dopoguerra mio padre fu privato dell’autonomia giuridica e non poté mettere le cose a posto. Quello — non la gabbia — fu il vero crimine commesso contro di lui dagli americani: la libertà gli venne concessa sotto la tutela legale della moglie». Mary è anche l’unica figlia biologica, essendo Omar Pound «figlio di Dorothy e di un egiziano, riconosciuto da mio padre per gentilhommerie verso la moglie. Ma davvero queste cose hanno importanza?». No, non ne hanno affatto. E se anche qualcuno tenterà di aggrapparvisi — ad esempio Casa Pound, citata in giudizio da Mary per appropriazione indebita del nome paterno — dovrà scontrarsi con un’eredità intellettuale ben più ingombrante di un atto legale. «Del processo non voglio più parlare, avendo già detto tutto: un’organizzazione politica come questa non ha niente a che fare con la figura di mio padre».
Oltre a esserne figlia, Mary è anche la traduttrice scelta da Pound per i Cantos, “la mia ossessione”, una sorta di prigione da cui non è riuscita ad evadere. «Credo che ancora ci siano molti equivoci su quell’opera, così come sul personaggio di Pound. È un grandioso poema, paragonabile alla commedia dantesca. Mio padre me l’affidò che ero appena una ragazzetta. Non dovevo mostrargli la traduzione prima di avere scritto una pagina intera. E inevitabilmente la faceva a pezzi». Perché quel titolo ibrido, plurale all’inglese di una parola italiana? «Perché sono musica pura, come disse mio padre a Pier Paolo Pasolini. Fu tentato anche dall’equivalente spagnolo, cantares, ma poi per omaggio a Dante scelse cantos». Mary lo ricorda per le calli veneziane, come immerso in un silenzio sospeso. «Finché non prorompeva in una specie di canto che poteva durare per ore. Nulla d’articolato: suoni quasi da ventriloquo, come se un potere estraneo gli barbugliasse in petto un linguaggio non d’umani. Un veloce scribacchiare su un pezzo di carta, il furioso annotare in un libro. S’era dischiuso qualcosa, un verso o una nuova idea».
Ovunque nel castello di Brunnenburg galleggiano le effigi del padre Ezra, molti i calchi in bronzo «che però ebbe il buon gusto di realizzare da vivo». Meno presente la madre Olga, talentuosa interprete di Bach e dama di gran mondo. Sinuosamente fasciata di velluti, la faceva sentire ancora più goffa e sgraziata nelle sue vestine da pastorella pusterlese. «Per motivi oscuri ne avevo paura. Era per me un’entità incomprensibile, mossa da un sordo rancore, come se di continuo le facessi torto. Desiderava un figlio maschio, e nacqui io». La vide piangere, una sera a Venezia. Mary voleva tornarsene a Gais dai suoi genitori contadini. E Olga si scontrava con il suo fallimento di madre. «Era come una dea piangente, di rabbia e di orgoglio ferito. Fino a quel momento conoscevo le lacrime provocate da sofferenze vere, come perdere un bambino, malattia, fame. Scoprivo che si poteva piangere anche per un sentimento offeso». Era Olga «la vera artista della famiglia», come le disse una volta il Babbo. Del loro difficile rapporto Mary scrisse, al principio degli anni Settanta, in straordinarie memorie autobiografiche che portano il titolo di Discrezioni (controcanto del paterno Indiscretions).
«Mia madre ci rimase molto male. Non comprese. Forse si sarebbe aspettata un memoir molto più colto e mondano. Io scrissi con sentimento, anche con gratitudine per l’educazione ricevuta». E suo padre? «Non disse nulla, ma era nella sua natura tacere».
Pound tacque anche quando, sotto la guerra, si trovò a convivere nella stessa casa di Rapallo con l’imperiosa Olga e la moglie Dorothy. «Due donne che l’amavano, che egli amava, ma che fra loro si odiavano». Sono passati tanti anni, forse ora si può alleggerire. «Oltretutto nessuna delle due sapeva cucinare », insomma un vero guaio. Il clima è meno lieve quando si evoca il Disciplinary Training Center dove nel maggio del 1945 lo scrittore fu rinchiuso dagli americani con l’accusa di tradimento. Mary lo andò a trovare, e ancora occupa la sua visione «l’immagine del babbo invecchiato, gli occhi rossi, i piedi nudi in scarpe senza lacci e l’abbraccio forte di un tempo». Pound assurge a mito, nessun sospetto può sfigurarlo agli occhi della figlia. «L’accusa di antisemitismo era ingiusta. Aveva amici ebrei e nel 1938 dedicò il suo libro al figlio del rabbino di New York». I radiodiscorsi, però, sono inequivocabili. «Porca miseria sì, c’è anche quello» si lascia andare Mary, uno dei pochi momenti di abbandono, «ma è sbagliato inchiodarlo alle sue parti peggiori. Non sapeva niente dei campi di concentramento, solo su Time Magazine vedemmo le prime immagini terrificanti». E dopo, al suo rientro dal St Elizabeth’s Hospital, aveste modo di riparlarne? «Non si sentiva colpevole, aveva usato un linguaggio che usavano in molti all’epoca. Certo lui non è mai stato perdonato dagli italiani. Ricordo quando nel 1961 riuscimmo a convincerlo a leggere i Cantos all’università. Intorno a lui il clima era ostile, un braccio alzato di saluto fu scambiato per omaggio al fascismo. Da Parigi era arrivato anche Quasimodo, che però si concedeva con sussiego, dandosi delle arie». Un passato che non passa. «Ancora oggi vedo scarsa attenzione, la sua opera sembra dimenticata, oscurata dagli errori». Ma oggi che è diventata coetanea dell’ultimo Pound, cosa ha capito di suo padre? «Tutti lo ritraggono corrucciato, assorto, lo sguardo cupo. Era sì tormentato, ma solo in apparenza. In fondo a sé aveva trovato pace, in armonia piena con mia madre. Forse aspettava i suoi blooming angels».