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 2012  ottobre 19 Venerdì calendario

Stragi del ’93, così fermarono l’anti-Ingroia - La solitudine del magistrato. Raccontata in una lettera drammatica scritta poche ore prima di mori­re

Stragi del ’93, così fermarono l’anti-Ingroia - La solitudine del magistrato. Raccontata in una lettera drammatica scritta poche ore prima di mori­re. Gabriele Chelazzi, magistrato dell’antimafia fio­rentina distaccato sul fronte delle stragi, si sente ab­bandonato dai colleghi e così il 16 aprile 2003 raccon­ta tutta la sua amarezza al capo dell’ufficio Ubaldo Nannucci. Quella notte viene stroncato da un infar­to. Ora quel documento, ritrovato dall’onorevole Amedeo Laboccetta, diventa pubblico. Come un te­stamento che costringe a riflettere; dietro le quinte di indagini sotto i riflettori dei media si consumano in­comprensioni, scontri,l’emarginazione di professio­na­lità impegnate sulla prima linea della lotta alla cri­minalità. «Come le ho segnalato - spiega Chelazzi - è con estremo disagio che da circa due anni mi trovo a lavo­rare da solo su una vicenda come quella in questio­ne »: una vicenda, ricorda il magistrato, che «ha a che fare con sette stragi». Le bombe, terrificanti, degli Uffizi, di Milano, e di Roma,le bombe del ’93,le bombe piazzate dai mafio­si per costringere lo Stato al dialogo, a una sorta di pat­to scellerato. Dieci morti, decine di feriti, un danno incalcolabile al nostro patrimonio artistico. Per quel­le carneficine viene processato e condannato all’er­gastolo un gruppo di mafiosi, a cominciare da Totò Ri­ina. Il capo di Cosa nostra ha fatto avere alle istituzio­ni il famoso papello con tutta una serie di richieste. Chelazzi deve perlustrare proprio quel terreno scivo­losissimo, la cosiddetta zona grigia, a cavallo delle istituzioni. Dà la caccia ai mandanti, sempre evocati e mai messi a fuoco. Una ricerca in qualche modo de­cisiva per la tenuta della democrazia. Ma il pm sco­pre di «lavorare da solo (con tutti i rischi del caso, da quello di sbagliare a quello di esporre la pelle a even­tualità non propriamente gratificanti)». Insomma, Chelazzi si ritrova senza i supporti ne­cessari, anzi senza nemmeno l’aiuto minimo da par­te dei colleghi. E’ deluso e disilluso. E descrive il suo stato d’animo a Nannucci:«A proposito dello scettici­smo non nego che ripetutamente mi è parso di co­gliervi addirittura un retropensiero secondo il quale il mio impegno in questo lavoro al contempo dipen­derebbe da un mio capriccioso accanimento e da un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi». Non è così, perché Chelazzi ha im­boccato la pista della trattativa fra Stato e mafia. Ma ci sono indagini che non catturano l’opinione pubbli­ca, forse perché si muovono su sentieri non ortodos­si: Chelazzi guarda a destra-a Dell’Utri,a Berlusconi, a tutta la presunta misteriologia legata alla nascita della Fininvest- ma nello stesso tempo apre altri fron­ti, a 360 gradi, senza indossare il paraocchi del confor­mismo giudiziario e intuisce manovre inso­spettabili che poi porteranno ver­so i «padri della patri»: i Conso, i Mancino e i tec­nici del governo Ciampi. In qualche modo, e senza volerne fare a posteriori una bandiera, Chelazzi è al­ternativo a Ingroia. Il 16 aprile la lettera è pron­ta. Chelazzi non fa nemmeno in tempo a spedirla perché muo­re la notte successiva a 59 anni. Il testo viene ritrovato sul suo tavolo e consegnato a Nannucci nei giorni seguenti. È un documento storico che fotografa quel che può accadere in un ufficio importante.E come un’in­dagine delicatissima possa finire sul bi­nario morto dell’indifferenza. Ora quel­le carte riemergono grazie all’impegno di Laboccetta che le ha cercate prima alla pro­cura di Firenze poi alla Commissione anti­mafia. «Lo hanno abbandonato al suo desti­no - racconta Laboccetta - e proprio mentre squarciava il velo di una trattativa inconfessa­bi­le che solo oggi comprendiamo ». Ora, a nove an­ni dal suo sacrificio.