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 2012  ottobre 19 Venerdì calendario

WALSER, L’ARTE DI CAMMINARE E’ NON ABITARE IN NESSUN LUOGO

Malgrado il titolo, Soggiorno in una casa di campagna (Adelphi, nell’ottima traduzione di Ada Vigliani, pp. 156, 18) è l’unico, vero libro di saggi che W. G. Sebald abbia mai scritto. Questi saggi sono pieni di fantasia e d’immaginazione, come le opere più creative di Sebald. Il libro comprende scritti su Rousseau, Hebel, Keller, Möritz, Robert Walser e i quadri di Jan Peter Tripp; poche cose sono più piacevoli che girovagare attraverso queste righe fittissime e trasparenti.
Il saggio sul Tesoretto di Hebel — un libro che nessun lettore italiano conosce — è incantevole. Il Tesoretto rappresenta un ordinamento regolato con somma cura: un sistema che ci fa immaginare come ogni cosa sia disposta per il meglio. Tutto è equilibrio e armonia: la coltivazione degli alberi da frutta e quella del frumento, i diversi tipi di pioggia o i nidi di uccelli. Le osservazioni di Hebel sull’edificio del mondo mirano a condurre il lettore a spasso nel vasto universo, al fine di permettergli di immaginare che negli astri più lontani, scintillanti nella notte come le luci di una città sconosciuta, vi siano persone sedute al pari di noi nel salotto buono, «gente che legge il giornale o le preghiere della sera, oppure fila e lavora a maglia, o gioca a carte, mentre il bambino fa esercizi di matematica». Egli si congeda dal contesto della vita e si eleva su quella più alta specola da cui, secondo Jean Paul, è possibile spingere lo sguardo verso la remota terra promessa dell’umanità, quella patria il cui suolo nessuno ha ancora mai calpestato.
Via via che ci avviciniamo verso il mondo moderno, si moltiplicano le sventure e i disastri. Nel porto di Leida era ormeggiata una nave in cui erano stivati settanta barili di polvere da sparo. «La gente mangiò a mezzodì, gustando il pranzo come ogni altro giorno, sebbene la nave fosse sempre lì». Ma quando nel pomeriggio le lancette dell’orologio del campanile grande indicavano le quattro e mezza — persone operose lavoravano nelle case, madri devote cullavano i loro piccoli, mercanti badavano ai loro affari, bambini erano riuniti insieme nella scuola serale, oziosi si annoiavano e stavano all’osteria a giocare a carte presso una caraffa di vino — all’improvviso avvenne uno scoppio.
La nave con i suoi settanta barili prese fuoco, saltò in aria, e in un batter d’occhio intere strade piene di case con tutti quanti vi abitavano e vivevano furono annientati e rovinarono in un cumulo di pietre. Molte centinaia di uomini vennero sepolti vivi o morti, oppure gravemente feriti, sotto queste macerie. Tre edifici scolastici crollarono con tutti i bambini dentro: uomini e animali, che al momento della disgrazia si trovavano per strada nelle vicinanze, furono scaraventati in terra dalla violenza dell’esplosione. A tale calamità si aggiunse un incendio, che rapidamente infuriò dappertutto, e che fu quasi impossibile spegnere, perché molti magazzini pieni di combustibile e di olio di balena ne furono coinvolti. Ottocento delle case più belle crollarono o dovettero essere abbattute.

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Centocinquanta anni dopo questo disastro, apparve Robert Walser, al quale Sebald dedica un saggio delizioso. Le tracce che Walser lasciò sul suo cammino furono così lievi che hanno rischiato di disperdersi. Il suo legame con il mondo fu dei più labili. Non giunse mai a stabilirsi da nessuna parte: non poté mai disporre di qualcosa di suo, fosse pure l’oggetto più insignificante. Non ebbe mai una casa. Non abitò mai a lungo nello stesso luogo: non possedeva un solo arredo proprio. Aveva due vestiti: un abito buono e quello per tutti giorni. Non aveva libri, nemmeno quelli che aveva scritto. Ciò che leggeva lo prendeva a prestito. Scriveva su carta di seconda mano.
Non ebbe rapporti con gli esseri umani, in primo luogo i suoi parenti. Dai fratelli, con i quali aveva avuto all’inizio un legame molto stretto, Karl il pittore, e Lisa la maestra, si allontanò sempre più, sino a diventare, alla fine, il più solitario di tutti i solitari. Non sappiamo esattamente che facesse: né a Berlino, né nel Seeland. Per lui era una cosa impossibile entrare in rapporto o in sintonia con una donna. Le cameriere dell’albergo Zum Blauen Kreuz — che egli osservava attraverso un foro fatto nella parte della mansarda in cui era alloggiato —, la signorina Resy Breitbach in Renania — con la quale intrattenne una corrispondenza piuttosto lunga — furono per lui creature di un altro pianeta. Restò vergine per tutta la vita.
Andò a trovare il fratello con calzoni tutti rammendature e buchi, benché da lui avesse appena ricevuto in dono un vestito nuovo. Come nei Fratelli Tanner, il fratello gli disse: «Guardati ancora una volta i calzoni: in basso tutti stracciati! Certo, lo so benissimo: sono soltanto calzoni, ma i calzoni devono essere messi in ordine come le anime, perché è indice di trascuratezza portare calzoni stracciati e laceri, e la trascuratezza viene dall’anima. Tu devi avere un’anima lacera».
Quando scrisse I fratelli Tanner, Welser comprese di essere uno straniero, un escluso. «Io sono ancora sempre davanti alla porta della vita, busso e busso, certo con scarsa irruenza, e tendo solo curiosamente l’orecchio per sentire se viene qualcuno che voglia aprirmi il chiavistello. Un chiavistello così è un po’ pesante, e nessuno viene volontieri se ha la sensazione che quello che bussa al di fuori è un mendicante. Non sono altro che uno che ascolta e attende».
Amava essere un ciottolo abbandonato sulle rive dell’esistenza: a cui niente e nessuno apparteneva. Dove poteva abitare, se la vita lo teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida sull’erba sino alla discesa delle tenebre. «Una valigia è tutta la casa che abito in questo mondo». Passeggiare ininterrottamente era il ritmo interiore del suo spirito. Attraversava in lungo e in largo il suo Paese, spesso in dure passeggiate notturne, quando il chiarore della luna si diffondeva sulla strada bianca davanti a lui. Nell’autunno del 1925, andò a piedi da Berna sino a Ginevra, seguendo in larga parte l’antico sentiero dei pellegrini che conduce al santuario di Santiago di Compostela.
Come diceva di se stesso, era cenere. «Di questa materia all’apparenza così poco interessante — scriveva a proposito della cenere — si possono ricordare, andando per così dire un po’ più in profondità, cose che di scarso interesse non lo sono affatto. Questo, ad esempio, che se soffiano sulla cenere non c’è assolutamente nulla in essa che opponga resistenza per non volarsene via in un baleno. La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificante, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere. Dove vi è cenere, non vi è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di avere calcato qualcosa».
La letteratura occidentale ha conosciuto molti stranieri. Ma non abbiamo incontrato nessuno straniero come Walser, posseduto da un così abissale desiderio di dedizione. Provava un doloroso bisogno di effusione, di donarsi agli altri, di appartenere a qualcuno, come un servo, o un cane, o una cosa: voleva appartenere loro anche dopo la loro scomparsa, «affinché il dono potesse piangere la perdita del suo possessore». Sperava che la sua dedizione non fosse corrisposta, che il dono non venisse accolto, che il suo amore restasse infelice, «perché essere abbandonato non ha forse un suono morbido, carezzevole e benefico?».
Scriveva senza fermarsi mai: ciò gli costava sempre più fatica; seguitava a scrivere giorno dopo giorno, sino e oltre il limite della sofferenza. Nella mansarda dell’albergo Zum Blauen Kreuz, rimaneva quotidianamente seduto a scrivere per dieci o anche tredici ore di fila, infagottato d’inverno nel cappotto militare, ai piedi le pantofole che si era fatto da solo utilizzando dei ritagli di stoffa. Parlava di una «galera della scrittura»: di un «carcere», di una «camera blindata»; e del rischio che uno sforzo tanto prolungato gli facesse perdere la salute mentale. Tutto, nei suoi testi, era precario, prismatico, mutevole. Le cose si davano rapidamente il cambio. Le sue scene duravano appena un battito di ciglia; e anche alle figure umane era concessa soltanto una vita molto fugace. La condizione ideale era quella dell’amnesia pura. Ogni frase di Walser si proponeva di far dimenticare quella passata; e dopo I Fratelli Tanner, il flusso del ricordo si fece sempre più esile fino a sfociare nel mare dell’oblio.
Il 25 gennaio 1929, Walser venne ricoverato in una clinica per malattie nervose, prima a Berna, poi a Herisau, dove rimase fino alla morte, il giorno di Natale del 1956. Ignoro quale sia stata la diagnosi degli psichiatri. Dai suoi libri, che possiamo leggere come la stenografia di una malattia nervosa, sembra che fosse vittima di una psicosi maniaco-depressiva. Ma Walser sapeva probabilmente qualcosa sulla propria follia, che noi ignoriamo. Entrando in manicomio voleva passare «inosservato»: stare nascosto, a parte, in un angolo.
Viveva nel manicomio come nella sua casa. Mondava le lenticchie, i fagioli e le castagne; spazzava i pavimenti; incollava sacchi di carta; leggeva vecchie riviste ingiallite; e si difendeva dai medici e dai malati con cortesia cerimoniosa. Non voleva sentir parlare di sé e dei suoi libri: li aveva scritti un altro, moltissimo tempo prima. La sventura l’aveva segnato. Il suo viso rotondo infantile sembrava «diviso a metà da un fulmine».
Pietro Citati