Giuliano Aluffi, il Venerdì 19/10/2012, 19 ottobre 2012
ESPLORATORI, QUELLI CHE, IN TERRE LONTANE, PERSERO LA STRADA. E LA VITA
Può arrivare un momento, nella vita degli esploratori, in cui la bussola non serve più a nulla, perché si capisce che non si tornerà più indietro. È il momento più privato e segreto. L’esploratore scompare. E diventa leggenda.
Qualcuno la leggenda ha cominciato a costruirsela in vita, come il conquistador Hernando de Soto, primo europeo ad attraversare il Mississippi, che dal 1539 al 1541 esplorò Florida, Georgia, Tennessee, Alabama e Mississippi, Arkansas, Oklahoma, Texas e Louisiana facendo credere agli indigeni di essere un immortale dio del Sole, per sottometterli senza combattere più di tanto. Dopo la sua morte per una febbre tropicale, fu fatto sparire dai suoi uomini per mantenere intatta l’utile credenza.
Altri, partiti per missioni dal ritorno incerto, decisero di far perdere le proprie tracce: è il caso dell’ultimo dei grandi esploratori vittoriani, il colonnello Percy Harrison Fawcett, che lasciò dietro di sé cartine con indicazioni fasulle per sviare il suo rivale, il magnate Alexander Hamilton Rice, e chiese di non essere cercato in caso di scomparsa, per non mettere a repentaglio le vite dei soccorritori. Fawcett era convinto che in mezzo alle fitte foreste del Mato Grosso esistesse una città isolata dal mondo, detta Z, dove il tempo si era fermato. È il mito che ispirò anche Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle.
Considerato il maggior esperto di spedizioni amazzoniche del suo tempo, Fawcett ottenne il sostegno
di istituzioni scientifiche prestigiose, come la Royal Geographical Society, pur essendo seguace delle bizzarre teorie esoteriche di Margaret Lumley Brown. Secondo la veggente, il Sudamerica sarebbe stato l’unico rimasuglio di un antico, vastissimo continente che avrebbe compreso anche Atlantide, e solo lì si sarebbero potute trovare tracce della razza superiore degli atlantidei.
Il 20 aprile 1925 Fawcett lasciò la città di Cuiabà con il figlio Jack, l’amico Raleigh e due portatori brasiliani. Non tornò mai. L’ultima sua traccia è la lettera che scrisse alla moglie da un punto della mappa definito Dead Horse Camp. Dopo non si seppe più nulla. Una bussola appartenuta a Fawcett fu trovata nel 1933 presso una tribù di indiani Baciary del Mato Grosso. E nel 2005 il giornalista del New Yorker David Grann, che ha ripercorso i tratti conosciuti dell’itinerario di Fawcett, ha raccolto dagli indios Kalapalo la storia secondo cui Fawcett e compagni si sarebbero fermati presso il villaggio. Poi, nonostante gli indios avessero tentato di dissuaderli, avrebbero proseguito verso est. Il fumo dei loro accampamenti sarebbe stato visto tra le cime degli alberi nei cinque giorni successivi. Poi più nulla.
Decine di anni dopo, Michael Clark Rockefeller, pronipote del magnate John D. Rockefeller, scomparve invece a 23 anni nella Nuova Guinea sud-occidentale in una spedizione tra gli Asmat, popolazione rimasta all’età della pietra. Il 17 novembre 1961 il catamarano che condivideva con l’antropologo René Wassing e due guide si rovesciò dove il fiume Pulau sfocia nel mare Arafura. Wassing rimase aggrappato, mentre Rockefeller si diresse a nuoto verso la costa. Nessuno sa che cosa successe dopo, nonostante tre aeroplani e dodici battelli - grazie ai potenti mezzi della famiglia - abbiano setacciato la zona già poche ore dopo l’accaduto. Spedizioni successive, come quella del giornalista Milt Machlin nel 1969, alimentarono l’ipotesi che Rockefeller fosse caduto vittima dei cacciatori di teste locali, desiderosi di rivalsa per le angherie dei colonizzatori olandesi.
Un conto è però essere temerari senza volerlo davvero - tutto ciò che interessava a Michael Rockefeller era organizzare una mostra di arte Asmat, comprensiva di crani umani decorati, al Museo di Arte primitiva fondato dal padre - e un’altra cosa è essere schiavi dell’adrenalina. È, per esempio, il caso dell’americano Richard Halliburton, che a 39 anni provò ad attraversare il Pacifico, da Hong Kong a San Francisco, su una giunca. La sua folgorazione sulla strada dell’avventura era avvenuta quando, universitario a Princeton, si era imbarcato su un cargo da New Orleans all’Inghilterra. Così rifletteva nel suo libro The Glorious Adventure: "Pensai ad Ulisse e poi alla mia vita, imprigionata dalle pareti di un appartamento, circondata da gente autocompiaciuta e imbrigliata nelle convenzioni: tutto mi parve noioso". Nel 1930 Halliburton circumnavigò in 18 mesi il globo su un biplano, scattando tra l’altro la prima fotografia aerea dell’Everest. Poi attraversò a nuoto il Canale di Panama e varcò le Alpi su un elefante come Annibale, finanziandosi con libri ed articoli. Nel marzo del 1939 si imbarcò sul Sea Dragon, giunca a motore di 23 metri, insieme a un equipaggio di cinque persone. I primi test sulla barca rivelarono numerosi problemi, ma Halliburton non rinunciò a salpare. Il 23 marzo finì in mezzo a un tifone: gli ultimi ad avvistarlo furono i marinai del piroscafo SS President Coolidge, ai quali Halliburton mandò via radio il messaggio: "Ci stiamo divertendo parecchio. Vorrei che foste qui al mio posto". Poi il Sea Dragon svanì.
Il mare del resto ha preso con sé diversi personaggi eccezionali: come Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo Principe, disperso durante una missione di ricognizione in Corsica. Nel 2004 il relitto del suo aereo fu trovato al largo dell’isola di Riou, e nel 2008 l’ex pilota militare tedesco Horst Rippert ha raccontato che nella notte del 31 luglio 1944 aveva abbattuto un Lockeed P-38 Lightning francese, che si presume fosse pilotato da Antoine de Saint-Exupéry. Resta misteriosa invece la scomparsa dell’americana Amelia Earhart, prima donna a compiere la trasvolata sull’Atlantico in solitaria - impresa riuscita solo a Charles Lindbergh prima di lei - nonché primo pilota in assoluto ad attraversare il Pacifico. La Earhart, trentanovenne affascinante come una diva, decollò all’alba del 2 luglio 1937, insieme al suo navigatore Fred Noonan, dalla Nuova Guinea per raggiungere l’isola Howland. Dove non arrivò mai. "Dovremmo essere sopra di voi ma non riusciamo a vedervi. Il carburante sta finendo" fu l’ultimo messaggio radio mandato alla barca della guardia costiera Itasca, alle 7.42 del mattino. Ultima posizione riportata: il mare intorno alle isole Nukumanu. Tutto il resto è ipotesi: Amalia Earhart potrebbe essere stata catturata dai soldati giapponesi delle isole Marshall oppure, come disse qualcuno, essersi ritirata in segreto a vita privata nel New Jersey. Fatto sta che la sua figura riempie giornali e film ormai da più di settant’anni.
Poi c’è la storia di George Mallory e Andrew Irvine, membri della spedizione inglese sull’Everest del giugno 1924: raggiunsero oppure no per primi la cima più alta del mondo? Li videro vivi per l’ultima volta a poche centinaia di metri dal picco. Il corpo di Mallory fu ritrovato, nel 1999, quello di Irvine mai. Così come sparì tra i ghiacci Johnny Mallon Waterman, che a soli 16 anni conquistò il monte McKinley, vetta più alta dell’America settentrionale. Già timidissimo ("Le barriere mentali che mi impediscono di rilassarmi quando incontro gli altri si abbassano soltanto quando sono solo sulle montagne") fu duramente provato dalla scomparsa del fratello Bill (svanito a 22 anni dopo aver lasciato un biglietto molto vago), cui seguì la morte di ben nove dei suoi compagni di scalate. Finì in cura presso l’istituto psichiatrico di Anchorage, e da quel momento le sue ascensioni si fecero sempre più spericolate: sparì alla fine di marzo 1981 nella riserva del Denali. Lasciando un biglietto laconico: "13 marzo 1981 1:42 pm. My last kiss". Il 6 febbraio del 2000 Guy Waterman, padre di Johnny e suo maestro di arrampicate, logorato dall’attesa senza speranza dei due figli, uscì di casa dopo aver baciato la moglie, salì in montagna, si sedette nella neve e si lasciò morire assiderato. La figura indipendente e anarchica di Johnny ispirò Chris McCandless, il giovane viaggiatore che morì nel 1992 in Alaska, nel parco del Denali, ed è stato raccontato in Into the Wild di Jon Krakauer e poi nel bellissimo film di Sean Penn.