Giuseppe Ceretti, Il Sole 24 Ore 19/10/2012, 19 ottobre 2012
Non ricordo dove, chiesi a un frugoletto calciatore: ti piace giocare all’attacco o in difesa?. Rispose: "Copro la fascia sinistra"
Non ricordo dove, chiesi a un frugoletto calciatore: ti piace giocare all’attacco o in difesa?. Rispose: "Copro la fascia sinistra". Avrà avuto sette anni. Fatemi conoscere quell’allenatore. Lo sbrano. Le due righe soprastanti non sono farina del mio sacco. Le ha pronunciate Candidò Cannavò, storico direttore della Gazzetta e che trovo nel bel libro "La vita e altri giochi di squadra", curato a un anno dalla sua morte dal figlio e collega Alessandro. Una lettura istruttiva, da consigliare ad addetti ai lavori e non. Oggi, ne siamo certi, Cannavò non avrebbe sbranato Giacomo Bramè. Chi è costui? Giacomo è, meglio dire era, responsabile del settore giovanile della società di calcio di Verolanuova, in provincia di Brescia. Si è dimesso dopo lo scontro con il padre di un ragazzo che lo ha ricoperto d’insulti per avere trasferito il figlio da una formazione all’altra. Una bocciatura intollerabile che ha scatenato l’aggressione, per fortuna solo verbale. Bramè ha accompagnato le sue dimissioni con una lettera sul sito della società, nella quale si augura che il suo gesto possa smuovere le coscienze di quei genitori che, per il solo fatto di pagare una retta, si sentono autorizzati a comportamenti ineducati: «Manca la cultura dello sport e molti genitori pensano che pur di agevolare il figlio, sono leciti anche l’astuzia e l’inganno». Dobbiamo il racconto alla sensibilità dei colleghi del Corsera, edizione bresciana, che hanno dedicato un paio di pagine alla vicenda che colpisce proprio per la sua normalità e per l’assenza di gesti violenti che pure hanno caratterizzato le cronache. A Mantova lo scorso anno una partita di calciatori in erba finì a botte e insulti razzisti, solo per rammentare un episodio eclatante. Il gesto è destinato a cadere nel dimenticatoio. Claudio Colombo scrive a commento sul Corriere: «Stupisce che Bramè sia stato lasciato solo con il suo foglio di dimissioni in mano e che nessuno, società, colleghi, genitori, altri ragazzi, abbia avuto la decenza di strapparlo». Una normalità che sconcerta e che fa pronunciare al grande attaccante del Torino, Paolino Pulici, parole assai dure: «Durante una riunione mi chiesero quale fosse la mia squadra ideale. Risposi: una squadra d’orfani». Oltre le battute che suonano come uno schiaffo, c’è da chiedersi perché questi fenomeni si siano tanto intensificati negli ultimi anni. L’elemento scatenante non è solo il miraggio di scoprire un Messi in famiglia. In fondo sarebbe facile smontare il sogno: non uno su mille, ma uno su un milione ce la fa. Il fatto è che il sogno s’è adeguato ai tempi, si acquista al discount nel reparto saldi dei grandi magazzini sportivi. Il ragazzo non è da serie A e nemmeno da B o Lega Pro? Basta la D o i campionati dilettanti. Tutto va bene per un ingaggio: d’accordo, mio figlio non è El Shaarawy, ha il piede ruvido, ma ha grinta e se si applica… se potessi avere mille euro al mese. Allora via con la borsa agli allenamenti, già pronta sotto il banco e poi, capita, chilometri in bus o con l’auto di papà e mamma verso il campo. Piccoli e grandi sacrifici per coltivare la speranza che resta spesso un sacco vuoto perché privato della gioia d’inseguire un pallone quando si è tanto giovani. Ciò basta per mettere studio e libri in secondo piano: che se ne fa della laurea o del diploma, con la disoccupazione che c’è in giro? Così molti sogni nascono e vengono smontati giorno dopo giorno dalle fatiche quotidiane, dalla frustrazione perché da quei piedi non spuntano successi e denaro. Ecco allora le risse, gli alterchi con il mister di turno «che si mette di mezzo e non capisce il mio ragazzo». Aveva ragione Candido Cannavò: «La notizia di un calcio scivolato verso la povertà sarebbe la più bella degli ultimi anni». Una generosa utopia perché il calcio non diventerà mai povero; forse fallirà travolto dai debiti, ma non è la stessa cosa. Sparito il calcio, c’è sempre la speranza di un posto d’ultima fila nei talk show o in una delle tante isole di sconosciuti delle tv.