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 2012  ottobre 19 Venerdì calendario

FUGA DI AZIENDE DALL’ITALIA ECCO DOVE SI RIFUGIANO CAPITALI, TALENTI E LAVORO [È

un’emorragia: le imprese più dinamiche non sopportano più gli eccessi
italiani e decidono di andare oltre confine, dove trovano basse tasse,
aree, capannoni, logistica e possono pagare meglio il personale] –
Sembra il titolo di un film, Escape for Survival, “Fuga per la salvezza”. Ma non è la classica storia dell’eroe buono che scappa dalle minacce di qualche super-cattivo: è la realtà delle imprese italiane che decidono di trasferirsi armi e bagagli all’estero. Lo fanno per salvarsi da un’Italia che le opprime in termini di tassazione sulle attività produttive e sui redditi personali. Se ne vanno per la carenza di infrastrutture logistiche, per la lentezza della banda larga, ormai necessaria per essere competitivi. Fuggono per la scarsa detassabilità degli investimenti in ricerca e sviluppo. Abbandonano per la scarsezza di aree industriali acessibili, per il mercato del lavoro ingessato. E ora anche per le difficoltà di accesso al credito. In un mondo globalizzato, capitali, competenze tecnologiche e capacità imprenditoriali si muovono. Ecco che allora per le imprese italiane, soprattutto del Nord e del Centro, diventa più conveniente spostarsi altrove, talvolta anche molto lontano. La competizione tra sistemi diventa fondamentale e si fa sempre più specifica: non è solo tra Paesi, ma tra regioni, “land”, cantoni e persino aree metropolitane, sempre più aggressivi nel trasformarsi in “piazzisti” pronti a offrire alle imprese italiane condizioni sempre più allettanti per lasciare il Belpaese. L’offerta è vasta e all’estero nascono agenzie governative ad hoc, come in Austria e in Svizzera. Basta fare un giro nel supermarket delle “corporate tax” dell’Europa a 27, per scoprire delle verità sconvolgenti: in Italia la tassazione media sugli utili d’impresa è del 31,4% contro il 20% della vicina Svizzera (con Cantoni come Zug e Schwyz che praticano dal 10 al 15%), il 18% della Slovenia, il 12,5% dell’Irlanda e il 10% della Bulgaria. Ma se alla tassazione degli utili d’impresa sommiamo quella sul lavoro (42,6% in Italia), ecco che il carico fiscale complessivo per le aziende italiane (il cosiddetto “total tax rate”) arriva a un peso pari al 68,6% dei profitti commerciali, rispetto a una media europea del 44,2% e mondiale del 47,8%. In Germania il “total tax rate” è al 48,2% (venti punti in meno), nel Regno Unito al 37,3% (trenta punti in meno). Sotto il 30% complessivo, invece, si collocano il Lussemburgo (21,2%), quello con la percentuale più bassa in Europa; e Cipro, Irlanda, Bulgaria e Danimarca. Non è un caso se i nostri imprenditori assediano consolati e rappresentanze commerciali, per decidere dove trasferire capitali, tecnologie, idee e spesso anche lavoratori qualificati.

In Svizzera ma anche in Usa. Uno dei principali contribuenti di Chiasso, in Canton Ticino, è una società con sede in via San Gottardo 30, il gruppo Bravofly. Dietro ci sono due imprenditori italiani: Fabio Cannavale e Marco Corradino. Il sindaco di Chiasso ogni settimana li chiama per sapere come va e se hanno bisogno di qualcosa, anche perché secondo la legge elvetica se l’azienda è in loco ma la proprietà è straniera gli introiti fiscali non vanno alla confederazione ma restano nelle casse municipali.
Bravofly controlla una delle start up italiane che ce l’hanno fatta, Volagratis, il sito leader nella vendita di biglietti aerei low cost. La sede era già a Chiasso, ma di recente i due imprenditori hanno deciso di spostare tutti i dipendenti oltre confine. Per risparmiare sulle tasse? Certo, ma andando a studiare l’emorragia di aziende che la Lombardia subisce a favore del Canton Ticino ciò che emerge è la capacità promozionale dei nostri vicini e l’assenza totale dei nostri politici locali, che ragionano ancora in termini di sfruttamento dei fondi pubblici e non in termini competitivi.
Philippe Praz, direttore per l’Italia di un’agenzia creata dal ministero dell’Economia elvetico, la Swiss Business Hub, spiega: «La crescita del numero di aziende italiane che decidono di stabilirsi in Svizzera è dovuta alla debolezza italiana, alla sua lentezza: da noi bastano un paio di giorni per aprire un’azienda. La manodopera è preparata, c’è flessibilità nei licenziamenti, i sindacati sono cooperativi, la logistica è molto forte, i servizi finanziari alle imprese sono avanzati e i cantoni si fanno concorrenza. Chiaro che molti imprenditori aprono da noi e lasciano la famiglia in Italia». Anche coi salari svizzeri, nettamente più alti dei nostri, passare la frontiera conviene. Praz allarga le braccia: «A noi non interessa far chiudere un’azienda in più in Italia, ma creare posti di lavoro e portare imprenditorialità in Svizzera». Si penserà: ma la Svizzera è piccola e a due passi, chiaro che è competitiva. Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, non la pensa così. «Quando ho fatto la domanda per aprire Eataly a New York, una delle città più ricche e complesse del mondo, mi ha chiamato il sindaco Bloomberg». Farinetti aveva fatto richiesta, scrivendo che avrebbe voluto assumere 250 persone. Bloomberg gli mise a disposizione gli uffici per velocizzare le pratiche. Oggi Eataly a Manhattan occupa 400 persone. Quella di Bloomberg è una moderna capacità di fare politica per il bene del territorio. E si chiama concorrenza sistemica.
Spostare un’azienda non è mai una decisione facile e il vantaggio fiscale è solo uno degli elementi: nel caso della Svizzera c’è una logistica integrata efficiente e il cuneo fiscale permette agli imprenditori che si spostano di pagare un lordo più basso e un netto più alto ai propri dipendenti (la logica “win win”). Poi c’è il risparmio in bolletta, perché l’Italia ha un costo dell’energia per l’industria più alto: da noi l’elettricità per uso industriale costa il doppio che in Estonia, Bulgaria e Finlandia. E così le nostre aziende se ne vanno. Sono attività che muoiono, lampadine che si spengono. Ed è ormai difficile calcolare quanti sono i capannoni che nascono direttamente all’estero.

Per il Veneto l’Austria è un faro. Ma non c’è solo la Svizzera: l’Austria si sta «mangiando» il Nordest. Il totale aggregato dell’investimento italiano in Austria ammonta a 26,65 miliardi di euro, secondo solo alla Germania (30,66 miliardi di euro). Nel 2011, l’Italia è stata l’investitore numero uno, superando la Germania. Le aziende italiane in Austria nel 2007 erano 857, nel 2011 ben 1.059 (+23,5%). Nel 2010 il totale degli investimenti dall’Italia in Austria gestiti da Austrian Business Agency è stato di 22 milioni di euro (sono stati creati 117 nuovi posti di lavoro); nel 2011 è stato di 6,6 milioni di euro, ma sono stati creati 175 nuovi posti di lavoro). La grande differenza tra i due anni è dovuta a due progetti trainanti, sviluppati in ambito ricerca e sviluppo nel 2010: la società Durst Phototechnik con sede sociale a Bressanone, Alto Adige, ha deciso di puntare tutto sulla sua filiale austriaca investendo 15 milioni di euro in un nuovo centro di ricerca a Lienz. E la Refrion, azienda produttrice di sistemi di riscaldamento di Udine, ha inaugurato un nuovo stabilimento di produzione a Hermagor, in Carinzia.
Le richieste di informazioni da parte di imprese italiane interessate a insediarsi in Austria sono state 235 nel 2011 e 155 nel periodo gennaio-giugno 2012. Nel 2011 gli investimenti italiani seguiti da Austrian Business Agency sono ammontati a 296,2 milioni di euro. Solo nei primi 6 mesi del 2012 sono stati di 116 milioni di euro. Tra le imprese italiane del Nordest più note che hanno investito in Austria ci sono grosse realtà come la Hausbrandt (caffè), Durst (prodotti per la stampa), Zuegg (marmellate), Danieli (acciaio), Tecnica Group (scarponi e sci Blizzard). E molte imprese artigiane di Cortina spostano la sede in Austria.
Marion Bieber, direttrice della Austrian Business Agency, spiega: «Lo spostamento di molte vostre imprese in Austria è dovuto alla stabilità sociale, alla certezza delle legislazioni, al basso numero di scioperi. Inoltre in alcune zone come la Carinzia le aree industriali costano davvero poco: 25 euro al metro contro i 120-130 del Nord Italia. Un’azienda bresciana ha appena aperto da noi per questa ragione. Poi siamo particolarmente forti nel premiare gli investimenti in ricerca e sviluppo: a chi fa R&S non offriamo solo la detrazione totale, ma rendiamo cash il 10% dell’investimento effettuato. Anche l’energia costa meno che da voi e la logistica è efficiente e ben collegata col resto d’Europa».

E la Slovenia è in pista. Anche la Slovenia fa incetta di imprese italiane. L’ambasciatore sloveno in Italia, il dinamico 43enne Iztok Mirosic, spiega: «La nostra corporate tax è del 18% ed entro il 2015 la porteremo al 15%. L’energia costa il 20-30% in meno, la burocrazia è efficiente, il porto di Capodistria è dinamico. Siamo un hub per la Mitteleuropa e i Balcani». Le opportunità non finiscono qui: «Stanno per partire privatizzazioni importanti: energia, assicurazioni, banche, manifatturiero».
In Slovenia hanno basi produttive realtà importanti come il gruppo tessile Bonazzi di Verona, presente in Slovenia con Aquafil, premiata a Lubiana dal Presidente della Repubblica di Slovenia Danilo Türk come “investitore straniero dell’anno”. Ma si sono avviate direttamente in loco aziende innovative come la Pipistrel del pilota Ivo Boscariol, che produce piccoli velivoli.
Il console sloveno di Milano Gianvito Camisasca conferma: «Sono subissato di richieste e non solo per il costo del lavoro, che in Slovenia vede stipendi medi di 900 euro al mese netti e 1.400 lordi. Anche trasporti e telecomunicazioni sono avanzati e la burocrazia è in stile austriaco. L’Italia non riesce a semplificare e ridurre i carichi fiscali».

Tra i tulipani, in Olanda. Anche l’Olanda, che per attrarre imprese ha creato la Netherland Foreign Investment Agency, piace alle aziende italiane. Daniele Cunego, console dei Paesi Bassi e un passato in Abn Amro, spiega: «I Paesi Bassi sono considerati un gateway per l’Europa, ossia un mezzo utile per internazionalizzare le aziende italiane attraverso una delocalizzazione intelligente, non basata solamente su iniziative labour intensive. La prima calamita per attrarre investimenti è una forte sburocratizzazione, lavoratori che parlano due lingue straniere e una tassazione contenuta».
La corporate tax olandese ha come aliquota massima il 25% sul reddito imponibile ed è omnicomprensiva. L’imposta viene ridotta al 20 per cento per le Pmi.
«Per questi motivi gli investimenti esteri in Olanda continuano a crescere, compresi quelli provenienti dal Belpaese. Rispetto ai 25 miliardi di euro investiti dai Paesi Bassi in Italia nel 2010 i 3,2 miliardi italiani investiti in Olanda sono ancora relativamente modesti, ma il tasso di crescita registrato evidenzia un + 27%».
La delocalizzazione in Olanda rende l’a-zienda veramente internazionale: molti headquarters di multinazionali, sia nord-americane che dei Bric countries, sono lì.
«Sono presenti direttamente con unità produttive primarie italiane quali Danieli-
Corus (metallo) con sede a Ijmuiden, Agpo-
Ferroli (riscaldamento) a Breda, Perfetti-van Melle per il dolciario, Ciccolella nel florovivaistico, Prysmiam Group (fibre ottiche) arrivata nel 2010 con l’acquisizione di Draka; oltre a una storica presenza di Ferplast di Vicenza, leader europeo nei pet products», rivela Daniele Cunego.
Francesco Ciccolella, già manager di Lego e Bang & Olufsen e oggi ai vertici dell’omonima azienda, la prima florovivaistica quotata in borsa in Europa, racconta: «Pur mantenendo la produzione in Puglia, abbiamo acquistato le società di trading in Olanda: per farlo abbiamo dovuto ottenere il benestare del consiglio di fabbrica, i sindacati sono pronti a combattere anche lì, ma sono più ragionevoli e flessibili».
L’Italia, a conti fatti, non appare competitiva su quasi nessun parametro. E se non ci sarà una reazione forte, da parte delle istituzioni di ogni livello, questo biblico “esodo” potrebbe essere solo l’inizio.