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 2012  ottobre 19 Venerdì calendario

INDAGINE SU UNA REGIONE AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO

INDAGINE SU UNA REGIONE AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO [Reggio sciolta per mafia. La ’ndrangheta al Pirellone di Milano. E tanti altri record da
brivido. Viaggio in una terra che «se non fosse parte d’Italia, sarebbe uno Stato fallito»] –
Accade tutto in poche ore, tra il 9 e il 10 ottobre, e con un clamore che silenzia persino i grugniti in maschera della corruzione laziale. Prima, il Comune di Reggio Calabria, guidato dal sindaco Demetrio Arena (Pdl), sciolto dal Viminale, visto che 41 tra i suoi dirigenti e funzionari «hanno parentele o frequentazioni con le cosche». Poi, il mattino seguente, ecco le manette per Domenico Zambetti, assessore (pure lui Pdl) della Regione Lombardia, arrestato per aver comprato 4mila voti di preferenza dalla ’ndrangheta.
Una prima volta di quelle che lasciano il segno e fanno biografia (di una nazione): il primo capoluogo di provincia chiuso per cosca e il primo assessore a San Vittore per 
voto di scambio. Be’, ne ha fatta di strada – 
come avevano mostrato le inchieste (sotto-
valutate) e gli allarmi (inascoltati) di Pigna-
tone&Boccassini – la frase del diplomatico Usa Patrick Thrum, datata 2008 e rivelata da Wikileaks: «Se non fosse parte d’Italia, la Calabria sarebbe uno Stato fallito».
Ne ha fatta così tanta che quella Calabria dedita al saccheggio, pure di se stessa, sta sempre meno solo in Calabria – la ’ndrangheta, è arcinoto, esporta ovunque metodi e soldi, da Duisburg ai paradisi fiscali – e il rischio è che oggi quella frase faccia una capriola su se stessa: invertendo termini e mappe fino a incaprettare il Paese intero.
La Calabria, presunta fallita, come il nuovo paesaggio nazionale, visti i deboli anticorpi per via della crisi? Terra da salvare o da isolare, secondo l’equazione – metà banale, metà reale – Calabria=’ndrangheta?
«Nessuno racconta più la Calabria», dice Mauro Minervino, scrittore e professore di Antropologia all’Accademia delle Belle Arti di Catanzaro, parlando della sua terra ridotta a freddo mattinale di arresti e condanne, non solo processuali: «Questa Calabria di adesso», come scrive in Statale 18, fatta di uomini che a «tutto sembrano estranei. Sembra che nessuno di loro sia nato dov’è nato. Come se quaggiù non abbiano mai abitato né loro né i loro parenti. Sembrano essere tutti di passaggio in Calabria».
La statale 18 è quella che corre lungo la costa tirrenica, da Tortora Marina a Reggio Calabria, «un nastro trasportatore che sparpaglia e tiene precariamente unite le persone e le cose». E le case, tantissime case in costruzione. Appena iniziate più che non-finite. Appena iniziate da anni e lasciate lì a spiaggiare sul paesaggio che altrimenti sarebbe strepitoso. Una statale che oggi è un viale di cemento vista mare dove si affacciano le vite di 500mila persone dei due milioni e poco più che vivono nella regione.

Quei DUE binari di Cemento
Anche se una delle ragioni sociali della Calabria d’oggi sta proprio nel numero falsato degli abitanti che non corrisponde a quello dei reali residenti, ché quasi ottocentomila calabresi – a partire dalla meglio gioventù – studiano, lavorano e vivono altrove.
Dall’altra parte, costa jonica, corre invece la SS 106, altro filare di cemento: strada che curiosamente fa da paesaggio a La collina del vento di Carmine Abate, il libro “calabrese” che ha vinto l’ultimo Campiello e nel quale, come in Statale 18, il terreno smotta e frana: qui «il versante degli scavi che scivolava lentamente verso il fondo», lì «la montagna che cammina trascinandosi a valle gli abusi sulla terra calabrese».
Due binari di cemento, la 18 e la 106, a cui fa da traversina un Appennino quasi ancestrale, complicatissimo da attraversare, come se la vita corresse solo o quasi sul filo del mare, dove l’agricoltura però respira a fatica (in 30 anni la superficie agricola utilizzata è precipitata del 23,9%) e dove la fame da mattone è divenuta insaziabile: dal 1990 al 2005 sono stati edificati 270mila ettari di terreno, pari a un terzo del territorio. Record italiano di una regione che ne detiene troppi.
A cominciare da quello dei comuni italiani oggi sciolti per contiguità o infiltrazione mafiosa: più della metà dei quali sono in Calabria, 14 su 23. Senza contare che anche Bordighera e Ventimiglia sono finite senza più giunta per la presenza incombente della ’ndrangheta da esportazione in quei municipi. Numeri che raccontano come la malavita organizzata si faccia politica malavitosa, porosa alle convenienze.

«senza una logica di sviluppo»
«Qui in Calabria», dice Minervino, fissando dalla balconata di Rende la piana di Cosenza che di notte s’illumina a giorno, «non esistono più i partiti, solo comitati elettorali quando si deve votare». Spesso, comitati d’affari a venire. «Anche questa città, la più universitaria e intellettuale della Calabria, ormai è diventata una distesa di cemento». Gli fa eco Emiliano Morrone, autore con Francesco Saverio Alessio de La società sparente, un libro sul binomio politica-’ndrangheta alle radici della nuova disperata emigrazione: «’Ndrangheta e massoneria sono i due grandi poteri oggi in Calabria, non necessariamente in quest’ordine: la politica va a rimorchio e serve a gestire gli affari».
Minervino è di Paola, il paese di un San Francesco duro e puro, e Morrone di San Giovanni in Fiore, terra di Gioacchino, che Dante volle in Paradiso. «Un santo e un mistico montanari ed ecologisti, sensibili all’armonia e al bello», ricorda Minervino. Ed è come se la Calabria fosse la loro nemesi: «Qui dove nessuno, oggi, prevede di recuperare l’esistente, di sostituire il brutto riqualificando il paesaggio, di rivedere una logica di sviluppo che restituisca dignità alla terra». Un’ignavia che addolora e stupisce i calabresi che dalla Calabria se ne sono andati, ma che sembra non toccare la maggioranza di quelli che ci vivono. Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione, scriveva Corrado Alvaro, novant’anni fa.

«GIOVANI, ANDATE VIA SE POTETE»
«Per forza, qui si va ad applaudirli i delinquenti». Mario Congiusta è un uomo a cui la vita, la Calabria e la ’ndrangheta hanno preso tutto. Gli hanno preso Gianluca, sei anni fa, con un colpo di lupara. Suo figlio aveva 31 anni, sognava il cambiamento. Ora lui porta il suo ritratto, impresso sulla fiancata del maggiolone, che era del suo ragazzo, per le strade di Siderno. «Perché io non ho paura e loro lo sanno».
Loro sono le cosche. «No, loro sono lo Stato. È inutile che continuiamo a dire: lo Stato siamo noi. Lo Stato ormai sono loro: il reddito annuo della ’ndrangheta è dieci volte una finanziaria di Monti. Non basta più trovare la forza di indignarsi: la mia generazione lascia ai suoi figli una Calabria peggiore di quella ricevuta, ma cosa puoi fare con gente che scarica i rifiuti tossici dove sa benissimo che vivranno, studieranno, lavoreranno i figli? Ai giovani io dico: “Andate via”. Gianluca è voluto restare in Calabria e l’hanno ammazzato. Qui si vince solo se lo Stato, come in Sicilia, lo vuole davvero». Tutti in Calabria dicono “qui” e non “da noi” e forse anche questo vuol dire qualcosa.

«LA vera isola È la calabria»
Centocinquanta chilometri di costa più a nord, annunciata da un mostruoso parco eolico sul mare dove si affaccia quel gioiello di Le Castella, già set di Monicelli e Pasolini, ecco Crotone e le sue macerie industriali: la ex Montedison, la ex Pertusola Sud, la discarica di Farina Trappeto. E quelle sociali e sanitarie, visto che i tumori in città sono il 15% in più rispetto alla media nazionale.
Oggi si parla di Taranto, ma proprio dall’Ilva di Taranto sono arrivati per anni, a Crotone, i veleni che, impastati con gli scarti della ex Pertusola, hanno fornito i materiali per costruire un pezzo di statale 106, per tirare su le banchine del porto e pure un intero quartiere popolare, scuole comprese.
Pierpaolo Bruni, 44 anni, è il magistrato che si occupa, col procuratore Raffaele Mazzotta, di questa inchiesta, denominata Black Mountains e, più di recente, dello smaltimento dei materiali di risulta della ex Montedison. Bruni è un uomo innamorato della Calabria: «Volevo fare qualcosa per la mia terra, per questo anche se ho studiato fuori, sono tornato qui». Ma è anche un uomo che descrive la sua terra come «un posto dove si può fare tutto con molta disinvoltura. Perché la vera isola di questo Paese non è la Sicilia ma la Calabria, al cui confronto la Puglia è quasi Europa». Una terra dove «ci si gira dall’altra parte, per l’abitudine di stare col più forte. Solo se lo Stato si dimostrerà tale potrà vincere la battaglia della legalità». La cui vacanza oggi è uno status calabrese.
A Crotone, Bruni è stato fatto oggetto più volte di minacce, depistaggi e delegittimazioni. Tre anni fa fu scoperto un piano per ucciderlo a colpi di bazooka ed esplosivo. È andato avanti senza paura, arrivando a far condannare, oltre che malavitosi, consiglieri regionali, provinciali e presidenti di giunta. Ed è per questo che mette i brividi sentirgli dire: «Questo è un bruttissimo momento. Spesso mi sento solo». La solitudine dei giudici primi, quanto a fila, in una terra di veleni, materiali e morali, dove le cosche tutelano il lavoro sporco, coprendo figure opache di ogni ordine e grado. Specie nel campo dello smaltimento rifiuti, tossici in primis, che finiscono sotto terra o sott’acqua e, comunque, sotto strati di potenti coperture. Delle quali la ’ndrangheta, spesso, è solo manovalanza in affari. Di qui un altro record calabrese, consegnato a Ferragosto da Goletta Verde: quello del mare più sporco d’Italia (davanti a Liguria e Campania), con 19 siti «fortemente inquinati».
«La vera isola siamo noi». A guardare dove si ferma la giustizia (Gian Antonio Stella ha raccontato su Sette la storia dei costituzionalisti fai-da-te che han deciso la “non-efficacia” in Calabria delle sentenze della Suprema Corte) e pure i treni, be’, la definizione di Bruni calza perfetta, anche per via del tariffario dei corrieri: 7 euro per spedire in Italia, 9 per Sicilia, Sardegna e Calabria.
Infatti, se le sentenze hanno per capolinea Maratea, la linea ferroviaria nord-sud spesso e volentieri si ferma a Sapri: a settembre, soppressi 12 regionali dalla Campania. E per andare da Roma a Palermo oggi si impiegano 34 minuti in più rispetto a 37 anni fa.

la legge matematica del pizzo
Allora, nel 1975, la Salerno-Reggio Calabria, a detta del sito dell’Anas, era già cosa fatta: «Nel 1974 viene ultimata l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, la maggiore opera realizzata direttamente dallo Stato Italiano». E dalla ’ndrangheta, “in quanto (anti)Stato”, secondo la provocazione disperata di Mario Congiusta. Sì, sul sito sta scritto così e viene da sorridere, pensando a quello che la settimana scorsa, riguardo alla A3, «prodotto di corruzione», ha scritto il New York Times.
Un cartello annuncia una nuova deviazione all’altezza di Mileto, nel Vibonese. Non ce sono più tante lungo il tracciato: scendendo fino a Gioia Tauro si è ormai nella media di altre autostrade. Solo che questa è stata pagata, senza vedere ancora il fine-impresa, cinque volte la missione di Curiosity su Marte, con costi complessivi che hanno superato ormai i 10 miliardi di euro. Il che vuol dire: 25 milioni di euro a chilometro.
L’autostrada “un tanto al pezzo”, e almeno il 3 per cento al pizzo – a spartirsi i lavori sui tronconi, secondo le inchieste aperte, le famiglie Farao e Gallico, Condello e De Stefano, tanto per citarne alcune – mostra comunque le sue incongruità, a partire da gallerie che paiono inutili, giustificate da riporti di montagna, della serie: prima il buco nell’aria, poi un tetto. Non certo ai costi.
Che sono il lievito delle ’ndrine: la percentuale di taglieggio è matematica pura. O la rispetti o sei fuori, non solo dagli appalti, ma dalla vita sociale se non dalla vita tout court. Perché la centralità dei numeri è tutto, come sostenevano i matematici della scuola pitagorica di Crotone, che il povero Ippaso, colpevole d’aver scoperto e proposto i numeri irrazionali, annegarono con una pietra al collo nello Jonio. Metodi spicci, questione di tradizioni.

«ma quanti sono i delinquenti?»
A Reggio Calabria hanno appena arrestato il boss Condello. Qualche giorno prima, 37 arresti tra Lamezia e Cirò Marina e altri 7 a seguito di un’inchiesta a Vibo. Tanto che un lettore di Corriere.it si sente di commentare con una domanda: «Ogni giorno arresti su arresti. Bene. Ma quanti sono in Calabria i delinquenti?» Perché quell’equazione Calabria=’ndrangheta sta facendo terra bruciata nell’immaginario italiano sulla bontà delle idee e delle lotte della gente per bene di questa terra bella e complicata.
Come se non bastasse, a Genova si ferma il processo alla ’ndrangheta in Liguria perché i traduttori dal “calabrese” all’italiano non fanno chiarezza e le intercettazioni restano un mistero. Un senso di estraneità, in questo caso linguistica, che genera mostri come l’annuncio web per un posto letto universitario a Bologna: «Affittasi. No punkabbestia, no calabresi (non siamo leghisti ma abbiamo avuto brutte esperienze)». Di qui, scandalo e scuse: «Era solo uno scherzo», la spiegazione poco convincente.
E invece ci sono anche storie di Calabria che parlano chiaro. E prendono di petto la paura e la voglia di lasciare tutto. Rosarno, dove gli immigrati, chiamati a far raccolto d’arance e trattati come bestie, si ribellarono alle cosche. Rosarno, terra di beni confiscati alla mafia. E Rosarno, sede di un liceo speciale.

«i parenti non ce li scegliamo»
«Ha visto il grande atrio? Quando sono arrivata, gli studenti ci entravano con la moto, sgasando davanti ai bidelli». Mariarosaria Russo, preside del “Piria” è un uragano di legalità abbattutosi su un mondo che ne è rimasto stravolto: «Sono qui da 5 anni, sono stata minacciata, ma sono andata avanti per la mia strada: insufficienze in condotta e 15 giorni di sospensione a chi non rispettava le regole. Per primi i figli dei boss, perché a Rosarno abbiamo i Molé, i Bellocco, i Pesce. Ma io non ho paura, com’è scritto su questa maglietta. E “io resto in Calabria” è diventato il motto dei miei studenti, compresi quelli con i genitori all’ergastolo. Studenti ai quali ho spiegato: «Non dovete rinunciare all’amore filiale, ma trovare un percorso alternativo per la vostra vita. Le madri hanno capito e sono venute a parlarne con me».
«Certo, c’è chi ha cercato di macchiare il mio lavoro, tirando fuori le parentele. È vero, mio fratello ha sposato una Piromalli. Ma i parenti uno non può sceglierseli. L’ho detto anche al procuratore Pignatone quando l’ho invitato a fare lezione di legalità davanti ai figli di gente che aveva fatto arrestare il giorno prima: “Dottore, se le mie parentele le possono creare problemi, non venga”».

Al mercato delle lauree
«E invece è venuto lui, come sono venuti Prestipino, Gratteri, il procuratore Grasso. Perché l’antimafia si fa con i fatti, andando nelle tendopoli ad aiutare gli immigrati e investendo sui territori confiscati, che il comune di Rosarno, dopo che lo ha fatto Gioia Tauro, alla fine ha promesso di concederci. Questa scuola e i suoi ragazzi antimafia ormai sono diventati un punto di riferimento. Lo sa che i fratelli Taviani erano qui a parlare del loro Cesare deve morire, quando hanno avuto la notizia che il film avrebbe rappresentato l’Italia all’Oscar?».
Lezione di legalità nel posto giusto, il più a rischio e assieme decisivo: la scuola. Perché solo tanti presidi Russo potranno evitare sentenze come quella del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, che il rampollo di un clan di Locri, 16enne, ha allontanato dai genitori e inserito in una struttura sociale fuori regione altrimenti «rassegnato a una vita segnata, perché la famiglia non offre garanzie per la sua educazione».
E lezione di legalità in faccia alle 72 lauree comprate all’Università di Cosenza (alcune con tanto di sette esami, tutti 30 e lode naturalmente, superati in un sol giorno) e annullate tre settimane fa dalla Procura. E pure in faccia al record di “copiatori” conquistato dagli istituti superiori della Calabria, dove «il test Invalsi evidenzia la regione come la “pecora nera” d’Italia anche in presenza di osservatori esterni». E dove, a dispetto del record di assenze dei professori (le ultime 4 province italiane per presenze in aula sono Cosenza, Crotone, Vibo Valenzia e Reggio Calabria) pullulano i cervelloni del Paese, visto che ancora l’anno scorso, il 2,1% dei maturandi della regione si è diplomato con 100 e lode (altro record...) contro lo 0,5% della Lombardia e l’1% del Lazio.

«solo 6 su 100 pagavano le tasse»
Da Rosarno a Gioia Tauro ci sono appena dieci chilometri. Qui, in municipio, si respira un’aria carica di entusiasmo, da che la vecchia amministrazione è stata sciolta, anch’essa, per “infiltrazione mafiosa”. «Un anno e mezzo fa, quando abbiamo ereditato il comune», racconta il sindaco Renato Bellofiore, lista civica, «ci siamo accorti che solo il 6% della popolazione pagava l’acqua e la tassa rifiuti. Be’, oggi con acqua e rifiuti siamo al 30 per cento delle bollette saldate. A chi non è di qui non sembrerà gran cosa, ma è un bel segnale l’idraulico che esce ogni mattina a piombare gli allacciamenti dei morosi. Qui non c’era l’idea che lo Stato potesse far valere i suoi diritti: certo, quando scopro che a non pagare è l’Asp, l’ente ospedaliero, che posso fare? Togliere l’acqua ai malati?». Intanto toglie l’acqua alle ’ndrine: su terreni confiscati, a San Gaetano Catanoso, sta sorgendo la nuova parrocchia.
Fronte del porto: l’assenteismo nel primo scalo commerciale del Mediterraneo è diminuito epperò il cliente migliore, la Maersk, se n’è andato altrove: «Ditemi, se non arrivano i treni, come fanno ad arrivare le merci che dovrebbero caricarvi sopra?».
Fronte dell’ospedale. Anzi, degli ospedali, che ce n’è tre nella piana e non si decidono a diventare uno perché Polistena vuole mantenere il suo e Gioia lo vorrebbe sul terreno regionale che 22 sindaci su 26 avevano scelto, ma Reggio Calabria ne preferisce un altro, vicino a Palmi. «E ancora di più, vicino a terreni che s’è scoperto far capo a un clan. Tutto fermo, naturalmente e chissà per quanto ancora un malato della piana di Gioia dovrà fare il ricovero qui, la tac là, l’intervento laggiù». Sbarellato lungo 30 km di corsia di asfalto bucherellato. Con costi fallimentari e rischi folli. Il dato più agghiacciante sul fronte della sanita regionale? Dall’aprile 2009 al marzo 2011, 64 casi di malasanità (50 mortali), altro record nazionale, contro i 24 del Lazio e i 15 in Lombardia.
Alla fine un ospedale (dove?, quando? a quale prezzo?) si farà, perché se c’è da smuovere terra e tirare su muri – dal soprattetto dell’ultima palazzina abbandonata in riva al mare, fino alle commesse dell’Expo milanese – la Calabria non si tira indietro. Il cemento come il principio di tutte le cose. Materia fondante, oltre che fondamenta da gettare a strascico ovunque. Cemento come elemento collante del clan – dove legami e giuramenti sono più forti dei vincoli di sangue – oltre che business imprenditoriale, benedetto, spesso, da licenze ad personam.

un perdono da far tremare Polsi
A maronna ra muntagna, il santuario di Polsi, sopra e dentro l’Aspromonte più aspro, è il simbolo, religiosamente primitivo, della mafia oggi più moderna, sofisticata e potente al mondo. Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda, ha scritto: «Ogni anno a settembre, i capi mafia si riuniscono a Polsi per discutere le strategie criminali. È il luogo sacro, il luogo della custodia delle 12 tavole della ’ndrangheta». E le telecamere dell’inchiesta “Crimine” ci hanno mostrato i capi-bastone a colloquio nel santuario, luogo-genesi di tante processioni dove la devozione a Dio si fa folkloristica e sottomessa devozione al boss di turno.
La Chiesa oggi in Calabria potrebbe avere un ruolo decisivo. Già, ma quale Chiesa? Quella che per bocca del vescovo di Cosenza Nunnari parla «di Calabria devastata dalla mafia» e «di inserimento subdolo nelle pratiche della pietà popolare»? O quella che, nelle stesse ore, proprio a Polsi per bocca del vescovo di Locri, Fiorini Morosini, «predica il perdono di tutti» e «lo annuncia anche per i mafiosi»? Frase che Mario Congiusta, in una lettera al Quotidiano della Calabria, ha censurato duramente: «Il vescovo non si può arrogare il diritto, in nome di Gesù, di perdonare chiunque e chi che sia», rammentando la distinzione tra l’assoluzione al confessionale, che compete al sacerdote, e il perdono – pure per chi ha ammazzato suo figlio e tanti altri figli di Calabria – che «è prer0gativa soltanto di Dio».

«la mafia ci sfida? vinciamo noi»
«Bisogna avere schiena diritta e nessuna ambiguità. Una frase come quella non andava pronunciata a Polsi. È stata un’ingenuità. Però, mi creda, ormai la Chiesa qui la sua scelta l’ha fatta e la strada che ha imboccato è alternativa alla ’ndrangheta. Quello che invece il popolo di Dio, dai vertici all’ultimo fedele, non ha ancora chiaro è che non si può essere cattolici e anche massoni».
Don Pino Demasi ha il pregio della chiarezza. È appena rientrato a Polistena da Torino, dove ha parlato dell’esperienza della Cooperativa della Valle del Marro e dei ragazzi di Libera che vi coltivano le terre confiscate ai Piromalli e ai Mammoliti: 130 ettari di buone ragioni per guardare al futuro.
«Il guaio della Calabria è l’assenza della politica, ormai nelle mani di criminalità e massoneria, i veri poteri. Ma questa terra non è ancora perduta e questi giovani ne sono la prova: loro creano, mentre la mafia è buona solo a distruggere. Solo così può e sa comandare». La ’ndragheta ha minacciato i ragazzi, ha rubato loro i trattori e tagliato 700 ulivi. Be’, ne hanno ripiantati 1.200. «Ma è dura, a fine agosto ci hanno bruciato l’escavatore. Ci hanno lanciato una sfida. Ma vinceremo noi, siamo più forti».
Bruciano i rifiuti, le ruspe, le aziende, in Calabria. Bruciano anche un bel po’ di speranze di lavoro se gli operai della torrefazione Guglielmo di Copanello, a due passi da Catanzaro, di giorno lavorano e di notte fanno le “sentinelle del caffè” dopo che i clan hanno bruciato due camion della ditta.
Il fuoco come elemento primordiale del potere mafioso, l’interfaccia del cemento: olocausto e cenere, tabula rasa. Salvo per quella eterna tela di Penelope che è il rimboschimento calabrese, palestra del leggendario forestale (ce n’è più che in ogni altra parte del globo di forestali, in Calabria), troppe volte sospettato persino “appiccatore di incendi”, in modo da garantirsi il lavoro.

«L’80% delle imprese È colluso »
Dice Minervino, l’antropologo-scrittore, che «c’è nel fuoco di Calabria una diffusa cattiveria sociale. Un odio per la natura e per la storia che si scatena soprattutto contro i beni pubblici indisponibili. Come se questa terra rifiutasse le regole e la razionalità condivisa del mondo contemporaneo».
A Don Pino e ai ragazzi di “Libera” il nuovo escavatore l’ha prestato un altro De Masi, Nino, imprenditore meccanico di Gioia Tauro che ha da poco brevettato una capsula antisismica da abitazione che può reggere fino a 15 tonnellate di detriti (primo acquirente, a fine settembre, un vigile urbano di Mormanno, sotto il Pollino, dove la terra trema un giorno sì e l’altro pure): «Un affare da cinque miliardi di euro che una banca della zona era pronta a sovvenzionare».
Era. «Se non che, dai piani superiori, è giunto il veto: un veto personale su Nino De Masi», che poi sarebbe l’uomo che a Report ha raccontato che i colleghi imprenditori, in assemblea, gli avevano proposto di pagare il pizzo collettivo; e pure l’uomo che ha ottenuto «dal tribunale di Palmi, il riconoscimento che il sistema bancario aveva applicato tassi usurai». E, non ultimo, l’uomo «che ha fatto sì che il Tar commissariasse il commissario anti-racket».
Racconta: «Dagli incarichi in Confindustria mi sono dimesso per via delle mie battaglie contro la criminalità. Ho subito e subisco continue minacce, perché evito la politica collusa. E pure di pagare il pizzo. Anche se mi definisco “un morto che cammina”».
Nella sua azienda deserta, una domenica mattina, Nino De Masi è un’amarezza in piena: «In Calabria niente si sottrae a certe logiche. Don Pino è in gamba, ma forse le ha raccontato una fiaba». Pausa. «Perché questa è una terra persa, mi creda. Le amministrazioni non sfuggono al controllo dell’autorità competente: che non è lo Stato. Ho moglie e figli e sogno di scappare, appena potrò. Qui in Calabria, la rivoluzione delle lenzuola siciliane e la presa di coscienza di una regione, compresi i giovani e Confindustria, non avverrà mai. L’80% delle imprese calabresi, ma forse è il 95%, è colluso. Quindi il problema diventa De Masi che non può ricevere soldi, visto che colluso non è. Qui la realtà è ribaltata e non c’è via d’uscita: dove lo trova lei un imprenditore, uno solo, che viene a investire oggi in Calabria?».
Sembra un de profundis, con l’impotenza che si fa rabbia e poi disillusione. Anche se Nino De Masi, alla fine, è ancora qui a lottare senza darsi pace: ed è già un buon segno perché non sa di resa. E poi, è un uomo che chiude ancora con un punto di domanda le sue frasi. E chiede aiuto alla legalità.

«ma ce la possiamo ancora fare»
La risposta, indirettamente, arriva a stretto giro da Nicola Gratteri, di ritorno da una missione a Bogotà: «Quando ho vinto il concorso in magistratura, ho scelto di rimanere in Calabria e ancora oggi penso di aver fatto la cosa giusta. Non ho voglia di scappare, né penso di arrendermi. La felicità sociale si chiama giustizia, che non è qualcosa di già dato, ma da costruire ogni giorno. In Calabria tanta gente ha perso fiducia e voglia di combattere. E la ’ndrangheta sembra ogni giorno più forte. Ma ce la possiamo ancora fare a liberarci dalle mafie che da 150 anni non mollano la morsa sul territorio».
Gratteri sembra parlare a Calabria perché Italia intenda. Perché «la morsa sul territorio» non è solo di questa terra. Parafrasando Congiusta: se lo stato “diventano” loro, allora la Calabria siamo noi, tutti noi. Ancora Gratteri: «Non basta colpire l’ala militare della ’ndrangheta, bisogna affinare gli strumenti legislativi per colpire le sue relazioni nella società e con la società. Non bisogna perdere la forza di combattere e resistere». Che è poi l’invito rivolto da Ilda Boccassini agli imprenditori lombardi in odore di paura&omertà: fidarsi dello Stato, parlare, denunciare. Il motto impresso, quattro secoli fa, sul simbolo di Tommaso Campanella, calabrese di Stilo e autore di quella utopia che fu La Città del sole: «Non tacebo». Non tacerò. Non riusciranno a farmi tacere.